18042024Headline:

L’Italia vende, Viterbo svende

centro storico Tetti Viterbo3Viterbo non sta in Papuasia (estremo lembo della Nuova Guinea), ma è al Centro dell’Italia, che poi è (era) la culla dell’Europa. Ottanta chilometri dal fulcro del mondo cristiano, senza considerare che anche la nostra città fu sede dei papi. Questo per dire che Viterbo non poteva e non può non respirare aria di italianità. Aria viziata, con i tempi che corrono, e dunque prospettive tossiche. Ampio, fin troppo, incipit per dire che i mali nazionali non possono che essere anche quelli della città e della sua provincia (ma sì ampliamolo il discorso). Un Paese – il nostro – che venti anni fa era al quinto posto di quelli industrializzati, soprattutto grazie alla fantasia e la robustezza del made in Italy, mentre oggi siede negli ultimi posti della graduatoria Ocse per la competitività, ha un debito pubblico tra i più alti del pianeta, un pressing fiscale da record. In compenso avrebbe un Pil pari a quello dei cinesi se dovesse fatturare in chiacchiere. E che fa la vecchia Italia? Vende i gioielli di famiglia: gli ultimi in ordine di tempo si chiamano Telecom e Alitalia. In fondo non ha più niente nel misero scrigno saccheggiato da tutti. Dicasi tutti. Anzi, ancora ha la Fiat. Ma se il dottor, Sergio Marchionne, non temesse una rivolta popolare avrebbe già fatto le valige. E probabilmente le farà. Tempo al tempo. Ed allora? Allora «non ci resta che piangere» titolava un famoso film firmato dalla coppia Benigni-Troisi.
Viterbo non è in Papuasia, appunto. Ha imparato le regole del gioco. Anzi, vi ha apportato interessanti innovazioni: riesce a non valorizzare quello che natura le ha dato (molto) e a vendere quello che ha realizzato (poco). La madre di tutte le perle, la madreperla, ha un nome: terme Inps, ferme da anni per un palleggio politico, aspettano un accordo operativo Regione-Comune che è all’orizzonte, ma assomiglia sempre di più ad un miraggio. Acqua calda. Vi restiamo: l’ex Oasi. I francesi dell’Oreal-Vichy (in joint venture con un imprenditore locale) erano interessati a farne un moderno centro termale e che facciamo? Li cacciamo per qualche litro d’acqua in più o in meno. Andiamo avanti. Il lotto autostradale Civitavecchia-Tarquinia della Tirrenica: c’erano 170 milioni di commesse da spartire, sono andati tutti o quasi ad imprese non viterbesi. Per inadeguatezza tecnica, probabilmente. Certo per scarsa capacità di pressing della politica e delle amministrazioni nostrane.
Ma fortunatamente abbiamo anche qualcosa da vendere e ha un nome pure eccitante: Caffeina. Successi a ripetizione per una kermesse che ha assunto dimensioni nazionali ed ha dimostrato di essere in grado di dare lustro e pubblicità alla Tuscia. E che facciamo? Ma la vendiamo, naturalmente: a Pienza e magari a qualche altro acquirente perché alle falde dei Cimini non si trovano soldi per sostenerla. Non c’è bisogno di essere grandi economisti per capire che in certi casi i quattrini sono investimenti e non sperpero di denaro pubblico.
Cos’altro abbiamo da vendere? Forse poco o niente, ma una riflessione più approfondita certo riserverebbe qualche sorpresa. Si accettano suggerimenti. In compenso riusciamo (qualcuno riesce) ancora ad allestire a Viterbo e dintorni un suggestivo bazar dei sogni mettendo sul banco il progetto di un aeroporto che non si farà mai. Ah ecco una dimenticanza: l’arsenico. Questo ce lo teniamo ben stretto, tanto non ci avvelenerà. Intossicati lo siamo già.

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