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Una Chiesa libera dal “complesso di Giona”

papa-francescoNon sono pochi i passaggi di rilievo – da un punto di vista teologico e filosofico – contenuti nella  lettera con cui papa Francesco risponde all’invito al dialogo di Eugenio Scalfari. E tutti manifestano una sintonia non superficiale con la prassi  del suo pontificato, ispirata ad uno stile personale  aperto, inclusivo, finalmente libero da quel “complesso di Giona” che troppo spesso ha caratterizzato il rapporto della Chiesa con la modernità.

Chi è Giona?  E’ il protagonista di uno dei libri più singolari dell’Antico testamento, uno strano profeta, recalcitrante ai comandi del Signore e perfino frastornato e irritato dalla sua  misericordia,  che la narrazione biblica  fissa in condizioni di isolamento quasi autistico, addormentato profondamente nella parte più appartata di una nave mentre intorno infuria la tempesta e poi addirittura imprigionato  nel ventre di un grande pesce per tre giorni e tre notti. Al di là dell’esegesi tradizionale, che vi vede adombrata la resurrezione di Gesù, la sua figura  è stata richiamata per rappresentare la propensione “naturale” dei singoli e delle comunità a chiudersi in un’ identità vissuta come esclusiva e incapace di entrare in relazione con gli altri. Come Giona, anche la Chiesa cattolica ha conosciuto  questa tentazione e, soprattutto di fronte all’avanzare del processo di secolarizzazione in età moderna, ha scelto troppo spesso  di arroccarsi nella propria identità, compattamente strutturata sulla base di convincimenti aventi  presunzione di verità assoluta e definitiva.

La lettera di papa Francesco  esprime, al contrario e con nettezza, un atteggiamento  fiducioso nella possibilità di «un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro». Un dialogo  che contribuisca a superare quell’incomunicabilità   «tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra», che può apparire davvero “paradossale”, se si riflette sul fatto che il senso comune democratico delle società contemporanee nasce proprio dalla feconda confluenza tra queste due grandi tradizioni culturali.

Perché il cammino di questo dialogo possa avviarsi, è necessario un passo preliminare e papa Francesco lo compie: «Per cominciare – scrive – io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».

Sono concetti teologici non del tutto nuovi nella storia  recente del magistero papale. Nella “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II – una tra le più appassionate  esortazioni contemporanee alla ricerca filosofica  come autonoma e libera impresa della ragione umana che può svilupparsi soltanto in un contesto di dialogo fiducioso e di amicizia sincera –  si leggono parole analoghe sul carattere relazionale ed esistenziale di ogni verità, anche di quella che  la fede cristiana offre come “conoscenza vera e coerente”, certezza definitiva di quel “qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante” che la ragione ricerca.

Assolutamente nuova è invece la limpidezza, la libertà – direi la “leggerezza”,  nel senso a cui ci richiamava Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane” – con cui vengono pronunciate queste parole da parte di papa Francesco. Altrettanto significativa e suscitatrice di speranza è la volontà di dare sostanza e dimensione storica a questa apertura, esprimendo la consapevolezza che essa  si colloca con coerenza lungo il solco tracciato dal Concilio Vaticano II.

So bene che anche questo richiamo non costituisce una novità e che il cammino che la Chiesa ha compiuto su quella  strada ha conosciuto rallentamenti, battute d’arresto e frequenti ritorni indietro. Eppure mi sembra ragionevole pensare e credere – anche solo per avere la possibilità di usare questa parola irrinunciabile in ogni situazione di vita, fatico a riconoscermi nell’espressione  “non credente” –  che la novità dirompente di un papa che, per la prima volta, ha l’ardire di chiamarsi Francesco non possa non lasciare segni profondi lungo la strada aperta dal Concilio. Più profondi di quanto un’attenzione troppo incline a soffermarsi  sull’amabilità del suo carattere o sulla libertà del suo stile comunicativo possa far pensare.

 

 

Luciano Dottarelli

 

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