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L’unica consolazione: “Colpa dell’arbitro”

Bonucci e Balotelli: Italia eliminata

Bonucci e Balotelli: Italia eliminata

Il pupo che sventola un tricolore bello di fronte al tricolore strappato della scuola Luigi Concetti, in via del Bottalone, forse un giorno sará depresso. Perché dopo dieci anni di vita non ha ancora visto l’Italia vincere un Mondiale, e anzi in appena quattro anni ha assistito – da spettatore non pagante, ma soprattutto innocente – a due figure di palta. Di melma. Di quell’altra cosa lì che inizia sempre con la M. Prima Sudafrica 2010, poi Brasile 2014, nella terra del futbòl meglio farsi da parte, se si gioca così: è una questione di decoro.

Povero piccolo, il cucciolo di via del Bottalone. Eppure continua a sbandierare, quando le otto della sera sono appena passate, la Nazionale è già fuori dal Mondiale, e la gente torna uscire dalle tane in cui – munita di birre e patatine e soprattutto munita di belle intenzioni – aveva assistito al Disastro di Natal. Ora sfollano in modo educato, rispetto al traffico selvaggio delle cinque e mezza di pomeriggio, quando i parcheggi si erano svuotati in un attimo e qualcuno schiacciava il piedino sull’acceleratore per arrivare a casa in tempo per gli inni nazionali (una Bmw, a piazzale Gramsci, sfiora l’ecatombe con un cambio di corsia in corsa che De Sciglio si può solo sognare). Adesso invece non c’è fretta, i viterbesi a piedi indugiano nelle chiacchiere, quasi come se non volessero tornare a casa, da soli, a riflettere sul Massimo Schifo Prandelliano: “Balotelli s’è montato la capoccia”, “Quello lì non c’ha capito niente coi cambi, ed è pure raccomandato da Renzi”, “E Cerci? Perché non ha messo Cerci?”. Discorsi tecnici che si sublimano quando si arriva al bar, e lì esce fuori il concetto già espresso nella telecronaca Sky da Fabio Caressa: “E’ colpa dell’arbitro”.

Il bimbo col tricolore in via del Bottalone

Il bimbo col tricolore in via del Bottalone

Era ora, cacchio. Sennò manco sembrava di stare in Italia.  La partita è finita da un pezzo e nessuno ancora che abbia pensato di dare la colpa all’arbitro.  Pure se il fallo di Marchisio era intenzionale, pure se l’Uruguay comunque c’ha fato un ficozzo (noi invece zero gol segnati), pure se dare la colpa all’arbitro ormai è così demodé, nel mondo civile, che finiranno per aprire una serie di locali autorizzati, con tanto di cartello: “Benvenuti. Qui si può dare la colpa all’arbitro”. E il signor Rodriguez, poi, era stato pure di manica larga quando, all’inizio del secondo tempo,  Bonucci aveva steso in area Luis Suarez: era la mossa del difensore di Pianoscarano è sembrata tanto – per gli amanti del wrestling vecchio stampo, quello di Dan Peterson e di André The Giant – un laccio californiano purissimo, ma senza nessuno che contasse il knock out. Ma s’era rifatto poco dopo, il sor Rodriguez, ignorando il morso, stile Eva nel Paradiso terrestre alla fatidica mela, sulla spalla del povero Chiellini.

Ecco, Bonucci. L’infante del paese, quello che ha portato Viterbo al Mondiale. Che orgoglio immenso, che tremarella. Peccato che ci sia già stato il tempo per farci l’abitudine nel 2010, altra figuraccia. Stavolta Leo è uno dei meno peggio (a parte l’abbrancamento di Suarez di cui sopra), e anzi a volte strappa applausi, come quando scavalca Alvaro Gonzalez con tanto di sombrero, che fa tanto America Latina. Ma sul gol di Godin l’impressione è che Leo abbia staccato la spina, anche se non è certo solo colpa sua. E quel rumore sordo che spacca il silenzio del centro storico, proprio in contemporanea col vantaggio uruguayano, sembra tanto il cazzotto di disperazione di un tifoso bonucciano (e italiano) nel gesto classico di sfasciare il televisore per l’incazzatura. Ci sta. Ci può stare tutto, in una delusione come questa.

Così, mentre quelli a piedi continuano ad avviarsi verso casa lentamente, come se fosse un lungo Camino de Santiago in salsa viterbese, e quelli con le macchine invece procedono a cinque all’ora, intruppando tutto viale Diaz, non resta che optare per la soluzione finale. Direzione primo bar disponibile: per dimenticare il prima possibile tutta questa faccenda, per ascoltare in diretta le dimissioni farsa di Prandelli e di Abete (un tentativo disperato per salvare la pelle al rientro in Italia) e soprattutto per bere. Bere, bere, bere. E il naufragar è dolce, in questa Tennent’s.

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