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Gli Etruschi tra cultura e cucina

Sergio Grasso

Sergio Grasso

Non è certo stata una serata “infausta” (come potevano, invece, presagire i superstiziosi) quella di venerdì 17 all’Antico Borgo la Commenda di Montefiascone, visto il “tutto esaurito” per gli ormai tradizionali incontri cultural-gastronomici che vengono organizzati nella cornice di questa struttura ubicata lungo la strada che da Viterbo porta a Marta.

A grande richiesta è tornato Sergio Grasso, antropologo alimentare o, meglio, “gastrosofo”, ossia cultore e filosofo della cucina (oltre che autore teatrale, doppiatore, regista e giornalista televisivo) che, fra una portata e l’altra di un menù dagli antichi sapori, ha relazionato su “Gli Etruschi tra cultura e cucina” omonimo titolo del suo ultimo libro, edito dalla Lighthouse Lublisher.
“A differenza dei roman, – ha esordito Grasso – dei quali si hanno dei veri ricettari, non abbiamo nessuna fonte diretta circa la gastronomia degli Etruschi. Infatti, il ricettario più antico si dice essere quello romano di Apicio che risale al II sec d.C. .. In realtà ce ne sono altri ancora antecedenti, ma trattasi più che altro di “manuali del cuoco” atti a distinguere, scegliere e conservare cibi e bavande, tipo quello di Archestrato di Gela… Di conseguenza, non si può che preparare un’ipotesi di cucina a partire da ciò che c’era in dispensa, e questo lo si può dedurre dall’ambiente e da degli strumenti ritrovati. Per ciò mi sono fatto costruire dei tegami di bronzo e terracotta, ed ho eseguito delle preparazioni usando le fonti energetiche che potevano esistere all’epoca in cui erano poche le tecniche di cottura: si usavano due tegole in terracotta, una conca e l’altra piana, venivano create delle fornacelle con tizzoni su cui venivano adagiate padelle in bronzo…”
Con la sua vivacità dialettica, Grasso ha illustrato i principi fondamentali ed il modus vivendi di una civiltà di cui l’arte, la religione, i riti e i miti influenzarono Roma fin dalla fondazione: “Romolo tracciò il solco secondo un rituale etrusco, così come etruschi furono gli ultimi tre Re di Roma, artefici di opere imponenti come le Mura Serviane, la Cloaca Maxima, il Foro Boario e il Circo Massimo”. Partendo, dunque, dalle logiche del vivere sociale fondate sul buon senso e su un'”economia del disponibile” (per la quale anche agricoltura e pastorizia reggevano su un uso assennato delle risorse del territorio), unitamente agli indizi suggeriti non solo dai reperti archeologici e dai resti alimentari botanici e animali, ma anche dalle raffigurazioni funerarie di banchetti, Grasso cerca “di ricostruire idealmente l’ambiente della Tuscia e della Maremma di tremila anni fa per giungere alla lettura di una possibile e probabile struttura alimentare di quell’epoca”.
Per dare qualche chicca, Grasso ha raccontato come nel suo “girovagare” per raccogliere dati, “in molte zone di sepoltura sono stati trovati resti di suini, ma mai nessuna coscia: questo fa dedurre che già allora si producevano prosciutti. Dai disegni nelle tombe, come quella dei Rilievi a Cerveteri, si vede l’immagine della pasta fatta in casa poichè viene rappresentata la spianatoia per la farina e la rotella per tagliare una sorta di lasagna. Al museo di Orvieto e nella Rocca Albornoz di Viterbo troviamo rappresentati moltissimi focolari domestici con utensili da cucina, pentole e tegami in bronzo”. Il quadro che emerge è quello di un popolo che conosceva molto bene le verdure, le erbe aromatiche e le loro proprietà per cui l’utilizzo culinario era funzionale anche ai benefici che se ne potevano avere in termini di igiene alimentare umana: per ciò, ad esempio, aglio e cipolla spesso erano presenti nella loro dieta. Non mancavano la selvaggina ed “i prodotti del bosco come nocciole, mandorle e castagne probabili ghiottonerie di inizio o fine pasto (in sostituzione del dessert all’epoca non previsto!)”. Gli Etruschi sono stati i primi a coltivare con metodo scientifico la vite e l’ulivo apprendendo dai Greci le tecniche di potatura e intuendo per primi che l’uva non doveva crescere per terra, ma aveva bisogno di un sostegno. Il vino, inoltre, nella cultura etrusca rappresentava il sangue degli dei, e veniva usato in molti rituali. Sono stati, quindi, coloro che hanno lasciato un bagaglio conoscitivo su queste colture divenute in seguito il punto di forza dell’agricoltura dei popoli dell’Italia centrale. Agli Etruschi non mancava nulla: dal mare e dalla terra ricavavano molte risorse e prodotti: “Forse non tutti sanno che – continua Grasso – alcuni piatti tipici della nostra zona sono derivati dalla cultura gastronomica etrusca: ad esempio la ‘sbroscia’, una zuppa di pesci di lago e verdure, o anche l’‘acqua cotta’ con ortaggi, cicorie, l’uovo e la carne; ceci, lenticchie e roveja erano i legumi più consumati, per i fagioli e le patate bisognerà attendere il ritorno di Colombo dall’America”.

Nel corso della serata è emersa la caratterizzazione del lavoro letterario di Grasso che si configura come un’opera a metà strada tra una cronaca di viaggio e un compendio di storia etrusca per osservare da vicino una società tutt’altro che arcaica, con una coscienza alimentare e ambientale evoluta, dinamica, a tratti moderna e assolutamente sorprendente, che dava importanza alla musica, alla magia, al gioco, e che riconosceva alla donna gli stessi diritti e doveri degli uomini.

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