29032024Headline:

Un pomeriggio con Dino Mito (Zoff)

Dino Zoff, 72 anni

Dino Zoff, 72 anni

Panorama d’Italia: la faccia rotonda, da gattone. Le rughe, che non sono di vecchiaia, ma d’esperienza. Gli occhiali cerchiati. I gesti con le mani. Il modo di parlare, che diventa una cantilena, a volte s’inceppa, con l’accento friulano che s’è annacquato, ma non perduto. Essere Dino Zoff, esserlo oggi, nella sala del Conclave di Palazzo papale (per l’appuntamento-intervista con Marco Cherubini, giornalista di Sportmediaset) come esserlo stato allora. A Mariano del Friuli – dove nacque 72 anni fa – e poi a Mantova, dove conobbe la moglie Anna, e quindi a Napoli e a Torino, in Spagna in quell’anno mondiale che dovrebbe essere, se la memoria non tradisce, verso il 1982; esserlo a Roma, da allenatore e poi da presidente daa Lazio. E ancora: essere Dino Zoff tra i pali, il più forte portiere del calcio moderno. Essere Dino Zoff, non un mito, perché detesta essere definito così, ma almeno un panorama italiano. E un esempio.
Il libro che è venuto a presentare si intitola Dura solo un attimo, la gloria. “L’ho scritto per i miei nipoti, Dino e Clara, perché mi farebbe piacere che un giorno sappiano chi è stato loro nonno. La vita è tutto un ricordo, certo quando si invecchia i ricordi aumentano e la mia vita è piena di immagini, di luoghi, di persone che ho conosciuto giocando al calcio. E col tempo anche i ricordi meno piacevoli si leggono in modo diverso”. Vediamoli, allora, questi ricordi.
“Esordii a 19 anni, con la maglia dell’Udinese, e la Fiorentina ci battè 5-2: allora i viola erano uno squadrone, noi molto meno. Non c’era la televisione, ma qualche giorno dopo al cinema di Udine, mostrarono le immagini di quella partita all’interno della settimana Incom: mi nascosi tra le poltrone perché mi vergognano di aver preso cinque gol…” (Nota: immaginarsi oggi un giocatore di serie A che s’avventurasse in un qualsiasi cinema).
“Poi arrivò il Mantova, il Napoli, con un trasferimento a fine mercato e (forse) qualche impiccio per mettere un timbro postale con l’orario anticipato. Una carriera troppo lenta? Non penso, semmai ho fatto la strada più congeniale al mio carattere, ho salito gradino dopo gradino, e questo mi è servito per arrivare a giocare fino a 41 anni”.

Il grande Dino firma autografi

Il grande Dino firma autografi

La Juventus, naturalmente. Undici anni senza saltare mai una partita, tanto da mandare ai pazzi le tre riserve (Piloni, Alessandrelli, Bodini) che si sono alternate negli anni in panchina nella vana speranza di strappargli qualche minuto in campo: “Arrivai a Torino nel 1972. Allora era come entrare alla Fiat. I dirigenti ci dicevano: bravi, siete arrivati primi. Se arrivavi secondo, però, era come perdere. Era la sostanza dello sport, come piace a me: contavano i numeri, i risultati, senza orpelli inutili, senza critiche ma neanche allori. E poi c’era l’Avvocato. Agnelli mi chiamava alle 8.30 della mattina, cosa di cui non vado fiero, perché lui iniziava a telefonare alle persone alle 5.30, e dunque io ero il cinquantesimo che chiamava. Mi chiedeva che tempo facesse a Torino, perché magari lui era a Sankt Moritz e voleva passare nel pomeriggio a vedere l’allenamento: io rispondevo vago, perché a quell’ora ancora non avevo alzato le serrande alla finestra, e non sapevo mica che tempo facesse. E comunque, con l’Avvocato parlavo di calcio come si parla al bar: era competente, curioso, ma mai che lo abbia sentito dire negli spogliatoi qualcosa tipo ‘oggi dobbiamo vincere’. Alla Juve queste cose non si usavano”.

Zoff con Cherubini (SportMediaset) e Mulè, direttore di Panorama

Zoff con Cherubini (SportMediaset) e Mulè, direttore di Panorama

I grandi personaggi, a partire da Sivori, che da queste parti ha fatto anche il presidente della Viterbese: “Me lo ritrovo compagno di squadra a Napoli, dopo che un paio d’anni prima, quando ero a Mantova, gli avevo rotto due costole in uno scontro di gioco. Un artista. Dal sarcasmo eccezionale. Mi diceva: se non c’erano i pali voi portieri eravate tutti morti di fame, perché per lui il nostro era un ruolo triste, senza possibilità di creare, d’inventare”. Gaetano Scirea: “Un uomo eccezionale, anzi un ragazzo perché se n’è andato troppo presto. Un leader senza mai, mai, alzare la voce. Non ne aveva bisogno”. Ed Enzo Bearzot, il Vecio: “Un fratello maggiore. Uno che difendeva la sua squadra e le sue idee dal davanti, senza nascondersi, senza bisogno del codice etico, perché con lui il comportamento era il punto di partenza. Era colto, aveva fatto il classico. Con la faccia strana, perché s’era rotto il naso da giocatore; eppure, certe volte, si toglieva lo sfizio di correggere qualche giornalista che sfoggiava improbabili citazioni in latino…” E Pertini: “Quella partita a scopone sull’aereo presidenziale, di ritorno dal Bernabeu. Perdemmo la partita, ma poi il presidente ammise che fu lui a sbagliare la giocata. E il pranzo al Quirinale. Disse: voglio Zoff alla mia destra, Bearzot alla mia sinistra e tutti i giocatori al tavolo. Se non rimanesse posto per i ministri, be’, che vadano al ristorante”.
Il calcio di oggi, per chiudere in bellezza tra gli applausi sinceri della sala, stordita dalla grandezza discreta dell’uomo: “Lo spettacolo ha cambiato molto il calcio, più dei soldi. Se in campo ti scappa una cosa sbagliata la sezionano con lo zoom. Ai miei tempi potevi anche tir giù qualche madonna, non succedeva niente. E poi, c’è tanta ipocrisia che non capisco, ma che non condanno perché ogni epoca ha le sue regole. Penso al terzo tempo, così falso: uno ti segna un gol, ti fa anche un’esultanza sguaiata, un balletto, e poi tutti a salutarsi a fine partita? Quando giocavo io sarebbero volati cazzotti, altro che”.
Grazie, Dino Zoff, incredibile panorama d’Italia. Anzi, degli italiani.

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