28032024Headline:

Cuore tarantino, viterbese di adozione

La partita speciale di chi è costretto a dividere le sue passioni e i suoi amori

I tifosi della Viterbese

I tifosi della Viterbese

Quando per la prima volta un bambinetto di 6 anni (anche meno) mise piede in uno stadio di calcio, pensava di dover lui tirare quattro calci al pallone. Non ci mise molto a comprendere che in quel posto ci si andava per vedere giocare gli altri. Che erano omoni grandi, grossi e sudati. E che quando colpivano quella sfera di cuoio (marrone scuro) di testa e dalla parte della cucitura, rischiavano un brutto sbrego (ferita lacero contusa, si direbbe in termine medico). E quel bambinetto si meravigliò ancora di più ascoltando un mucchio di gente tutta in piedi e stipata in un posto che chiamavano gradinata,  che urlava a squarciagola “Arsenale, Arsenale”. Il babbo gli spiegò che incitavano la squadra che giocava in casa e che allora si chiamava Taranto, ma al momento della fondazione della società il nome originario era ArsenalTaranto. Perché in quella che oggi è conosciuta come “città dei due mari”, funzionava un munitissimo cantiere navale dove si riparavano le navi militari: l’arsenale, appunto.

Qualche anno dopo, quel bambinetto era uno studente del liceo e il Taranto era stato promosso d’ufficio in serie B, perché avevano beccato la Casertana (che aveva vinto il campionato) con le mani nel sacco: si era acchittata un paio di partite. L’inquisitore federale si chiamava Ferrari Ciboldi ed era diventato un idolo perché aveva inchiodato i cattivi e mandato in B i buoni. Che avevano sempre la maglia rossoblu ed erano allenati da un toscano, Mario Caciagli, noto perché soleva ripetere a chi gli rimproverava scarso coraggio che “nel piatto del pareggio non si sputa mai”. E così, non scatarrando mai sugli 0-0 raccattati qua e là, arrivò in B. Lo stadio delle primissime esperienze era ormai inadeguato (era intitolato al mitico Valentino Mazzola e il fondo era in terraccia rossa, più indicato per il tennis per certi versi) e così si decise di farne uno nuovo. Ci misero 100 giorni o poco più a costruirlo e lo chiamarono in una botta di somma fantasia Salinella, semplicemente il nome del quartiere dove sorgeva. Per inaugurarlo ufficialmente (albori degli anni Settanta) ci giocò in amichevole il Real Madrid, che era uno squadrone pure all’epoca: los blancos scesero in campo, scherzarono un po’ e poi ne infilarono 4 al povero Taranto. Giocò un pezzetto di partita pure Amancio, ormai quasi quarantenne. Correva pochissimo, ma quando toccava la palla (che era diventata nel frattempo a scacchi bianchi e neri), ti faceva luccicare gli occhi. Poiché il tempo stringeva, usarono per metter su quello stadio i materiali più poveri: tubi Innocenti e tavolacci di legno. Le poltrone della tribuna erano in realtà seggiolini di ferro scomodissimi, ma facevano un gran chiasso quando si sbattevano. E così quello diventò un altro degli incitamenti per i rossoblu.

I tifosi del Taranto

I tifosi del Taranto

Arrivò poi il giorno in cui il Taranto acquistò un signore: si chiamava Erasmo Iacovone e segnava gol a raffica, soprattutto di testa. Era molisano di Capracotta e fece innamorare una città che per la prima (e forse unica volta) sognò la serie A. Con lui ci giocava un certo Franco Selvaggi,  che poi sarebbe diventato campione del mondo in Spagna nel 1982. Il bambinetto era diventato uno studente universitario e pianse insieme ad altre ventimila persone quando nello stadio ci furono i funerali del centravanti, travolto una domenica sera all’uscita del ristorante dove aveva cenato. Per la cronaca, la partita del pomeriggio allo stadio Salinella era finita 0-0 e il portiere della Cremonese aveva fatto miracoli. Pioveva a dirotto e davanti alla bara portata a spalla dai compagni di squadra c’erano il presidente dell’epoca Giovanni Fico (un macellaio che aveva fatto i soldi lavorando nell’indotto dell’Italsider, oggi Ilva) e l’allenatore Tom Rosati, un abruzzese testadura e dai modi burberi, che di calcio però ci capiva parecchio. Molto più di tanti attuali strateghi della panchina. Da quel giorno lo stadio non si chiamò più Salinella.

Anni dopo, improvvisamente decisero che i tubi Innocenti e i tavoloni di legno non andavano più bene: l’impianto fu dichiarato inagibile. Peregrinazioni sui campi neutri, retrocessioni, scandali, dirigenze che più inadeguate non si può. Lo ricostruirono a pezzi per arrivare a quello che oggi è lo stadio Iacovone e ci giocò pure l’Italia di Vicini (4-0 all’Ungheria, in gol Berti, Carnevale, Ferri e Vialli) che si preparava ai Mondiali di Roma: quelli che dovevamo vincere e che si infransero invece sulla maledizione dei rigori e, prima ancora, sulla paperona di Zenga. Il bambinetto nel frattempo, mettendo da parte studi e competenze, faceva il giornalista e seguiva proprio il Taranto, in casa e fuori. Il contratto era un sogno, era un abusivo in redazione però faceva l’inviato… E venne anche il tempo in cui il Taranto si salvò dalla retrocessione superando agli spareggi di Napoli la Lazio (1-0, rete di De Vitis) e il Campobasso (1-1, punizione di Paolinelli e miracolo finale del  viterbese Daniele Goletti, su botta di Evangelisti, sempre su punizione). Quel portierone era stato denominato dal giornalista di cui sopra “Albatros”, per la straordinaria apertura delle braccia. Dopo quella salvezza, c’era davvero la concreta possibilità di puntare seriamente alla A. uno squadrone con De Vitis, Biondo, Maiellaro… Ma il presidente dell’epoca (Vito Fasano, ingegnere  e imprenditore) cedette Maiellaro all’odiatissimo Bari e la faccenda finì lì.

Erasmo Iacovone, l'attaccante che fece sognare la A ai tarantini

Erasmo Iacovone, l’attaccante che fece sognare la A ai tarantini

Poi le inestricabili vicissitudini della vita e del mestiere, condussero il bambinetto (che era diventato uomo con famiglia e figli) a Viterbo, 18 anni fa. Poteva essere solo una tappa e invece è diventato l’arrivo. Tanto che oggi si considera viterbese d’adozione a tutti gli effetti. Lo parla anche il dialetto cittadino, certamente lo capisce. Ecco perché la partita di domani tra Viterbese e Taranto per lui è speciale: perché di fronte ci sono le squadre delle sue due città. Perché rivedrà da una parte i colori giallo e blu (che ha adottato) e dall’altra il rossoblu (che gli è rimasto inesorabilmente e inevitabilmente nel cuore). Ma almeno, nel tumulto dei sentimenti, un piccolo vantaggio l’avrà: chiunque andrà avanti nel sogno ripescaggio, per lui sarà un successo.

Ps. Per chi non lo avesse ancora capito, il bambinetto (poi studente, poi uomo e giornalista) è chi scrive.

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