Fatta la legge, trovato l’inganno. Si dice così, all’ombra dello Stivale. E un motivo ci sarà pure. Stavolta però, forse, sarebbe il caso di fare un piccolo passo indietro e di capire come realmente stanno le cose. Ma andiamo per ordine, che l’argomento è gia di per sé un bel labirinto.
“Che in Italia sia scattato il divieto di utilizzare glifosato nelle coltivazioni di grano in pre-raccolta è una conquista, ma perché la misura abbia senso compiuto il Governo deve adottare, per coerenza, misure precauzionali sul prodotto importato. Non ha senso infatti vietare qua, ma permettere l’arrivo dal Canada di grano che invece continua ad essere trattato con glifosato, sospettato di essere cancerogeno, per essiccare il raccolto e garantire artificialmente un elevato livello proteico”, apre così Maria Serena Di Risio, che oltre ad essere delegata dei giovani imprenditori della Coldiretti di Viterbo, coltiva pure grano e vende farine a Fabrica di Roma.
E per adesso abbiamo dato la legge e l’inganno. Le perplessità espresse dalla Di Risio sono logiche, precise e puntuali. “Siamo il principale produttore europeo di grano duro destinato alla produzione di pasta – prosegue – con 4,8 milioni di tonnellate su una superficie coltivata di 1,3 milioni di ettari e la Tuscia concorre con numeri di tutto rispetto alla produzione nazionale. Basti pensare che Viterbo è considerato il granaio di Roma. Eppure importiamo altre 2,3 milioni di tonnellate di grano duro e di queste oltre la metà arriva dal Canada, dove il glifosato è usato massicciamente”.
In sostanza un pacco di pasta ogni cinque è fuori legge. O, per dirla più morbida, è italo-canadese. Il punto però, forse, è un altro. Ancora più alto e ancora più lontano. Che tipi di pasta comperiamo? Che tipi di grani vengono piantati qua? Sarà mica che mangiarla tutti i giorni non è cosa buona? Come mai prima dell’entrata dell’industria in agricoltura il grano era alto due metri, oggi 1.20 quando va bene, e mezza popolazione ha problemi di intolleranza?
Combattere l’entrata di (certi) mercati esteri, deleteri, è sacrosanto. Fare in modo di mantenere il made in Italy in Italy, è altrettanto doveroso. Magari però basterebbe semplicemente abbandonare i colossi della grande distribuzione (che hanno nomi italiani, ma sedi puntualmente all’estero) e gettarsi nel consumo di grani autentici, “antichi”, veri, bilanciati. Nessuno avvertirebbe più la necessità di pensare al Canada, nemmeno come meta di vacanza.