29032024Headline:

E “La città d’acqua” incanta il pubblico

Il documentario di Pierfrancesco Campanella con la regia di Emanuele Pecoraro

Una foto aerea di Bagnaia

Una foto aerea di Bagnaia

Finalmente qualcuno si è accorto di una delle “perle” nascoste qui nella Tuscia, infatti, incastonata sulla via Francigena che passa tra i Cimini c’è Bagnaia, la frazione di Viterbo che a sua volta nasconde uno dei più bei gioielli architettonici che possediamo in Italia: Villa Lante. La “perla” e il “gioiello” hanno attirato l’attenzione di Pierfrancesco Campanella che ha deciso di girare un documentario dal titolo “La città d’acqua” con la regia di Emanuele Pecoraro. Il film è stato proiettato venerdì scorso nell’ambito della rassegna “Calcata Film Festival” riscuotendo un grande successo tra il pubblico presente.

L’opera, della durata di circa 23 minuti, prodotta da Angelo Bassi per Mediterranea Productions, che si avvale della fotografia e del montaggio di Mauro Ferri, è dedicata proprio alla cittadina laziale di Bagnaia, centro di antiche origini, anteriore all’anno 1.000, a meno di 5 Km da Viterbo, famosa, appunto per Villa Lante, costruita nel XVI secolo, forse su disegno del Vignola. Per l’originalità e grandiosità dei giardini all’italiana, per le splendide palazzine e fontane, Villa Lante costituisce un richiamo irresistibile per i turisti e non solo. Bagnaia si presenta come un luogo che unisce alle bellezze naturali, una quantità enorme di opere artistiche e architettoniche di inestimabile valore, di tradizione culturale oltre che di interesse storico.

Villa Lante

Villa Lante

Insomma possiamo considerare la cittadina come ideale “testimonial” di un patrimonio già consegnato all’eternità, ma sicuramente da valorizzare ed enfatizzare, se possibile, ancora di più. L’idea di questo documentario nasce proprio dall’esigenza di “suggellare” il gusto del “bello”, inteso come arricchimento della sensibilità più recondita ed elevazione dello spirito. E Bagnaia, con la sua storia e le sue molteplici sfaccettature artistiche, in questa dimensione, rientra a pieno merito. Il regista e l’ideatore del documentario hanno voluto impreziosire il lavoro dando un’impronta stilistica di tipo “vintage”, con una fotografia e una confezione realizzativa quasi d’altri tempi. Con un gusto che rimanda in qualche modo alla magia della pellicola, grazie all’uso di tecniche analogiche, in un’epoca nella quale prevale il più pulito ma asettico e freddo “digitale”. Un lavoro ben curato che ha colpito il pubblico e che di sicuro farà ancora parlare di sé nel mondo del grande schermo.

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