Le ultime vicende politiche, che hanno visto l’ennesima (ultima?) fiammata eversiva del berlusconismo disinnescata dall’azione delle cosiddette “colombe” guidate da Alfano, sono state salutate da molti commentatori come la chiusura di un’epoca e il segno che l’Italia si sta avviando finalmente a diventare un paese normale. Non credo che questa lettura colga il senso vero di quanto è accaduto ed anzi mi sembra che induca a sottovalutare i rischi che la nuova situazione politica porta con sé. Non è certo attraverso abili manovre politico-parlamentari, mai scevre dall’ingrediente italico del trasformismo, che si esce da un ventennio che ha sfibrato il tessuto democratico del Paese, minando la credibilità stessa delle istituzioni e perfino la fiducia popolare nella possibilità di cambiare la società attraverso la politica.
La reale, effettiva archiviazione dell’ ”età berlusconiana” e l’apertura di un’autentica fase nuova nella vita politica e sociale del Paese, in una cornice limpida di bipolarismo maturo, è stata un’opportunità che il centrosinistra ha avuto a portata di mano e purtroppo ha mancato per ben due volte nel corso dell’ultimo anno: dapprima a causa della sconfitta nelle elezioni politiche e poi con la convulsa (e inadeguata) conduzione della fase di formazione del governo e di elezione delle massime cariche istituzionali.
Per chi continua testardamente a guardare al destino di questo schieramento per scorgere la speranza di uscire dalla crisi globale superando le debolezze strutturali dell’Italia, ristabilendo un’ etica dell’impegno pubblico che valorizzi onestà e competenza e azzerando i conflitti di interesse e le rendite di posizione, l’attuale “normalizzazione” del quadro politico in realtà contiene in sé più di un motivo di preoccupazione. Intanto essa ottiene il risultato di depotenziare il significato del congresso del Partito Democratico che – non dimentichiamolo – si proponeva di dare una risposta forte e nuova proprio alla presa d’atto di quelle patologie di fondo che le dimissioni di Bersani e dell’intera segreteria avevano voluto drammaticamente evidenziare.
Questo congresso aveva l’ambizione di mettere in moto uno straordinario sforzo di confronto ideale e programmatico per una rifondazione del partito e dell’intero centrosinistra, per costruire un nuovo comune senso di appartenenza e contrastare il silenzioso abbandono di tanti militanti, frastornati e delusi di fronte agli ultimi passaggi politici.
La passione che nutriva una simile ambizione si stenta a ritrovarla nell’attuale dibattito congressuale e soprattutto nelle pratiche di posizionamento che si vanno delineando per la costruzione dei nuovi gruppi dirigenti, le quali, soprattutto ai livelli locali, ricalcano spregiudicate modalità di accordo trasversale che rischiano di trasfigurare definitivamente il Partito Democratico in un coacervo di oligarchie il cui esclusivo obiettivo è l’autoconservazione.
Per questo mi sembra importante – aldilà delle posizioni che ognuno vorrà liberamente assumere nel percorso congressuale – il contributo critico che viene dal documento di “Campo Democratico” (http://www.campodemocratico.it/documento/). Soprattutto laddove ci spinge a ritrovare in profondità – sotto la crosta di un esasperato politicismo – le radici etiche e pre-politiche, il sentimento di giustizia, il rispetto per la dimensione delle scelte personali e la sollecitudine verso la comunità che devono nutrire ogni autentico impegno politico.
Non certo per coltivare la sterile presunzione che queste motivazioni appartengano in esclusiva a chi sceglie di stare a sinistra, ma per mantenere sempre viva la consapevolezza che senza rispecchiarsi ed alimentarsi in esse la sinistra non abbia reale possibilità e senso di esistere.
Sarà il solito congresso dominato dai giochetti dei Peppe Bucìa e Ugo Salvadanaio Sposetti con la partecipazione straordinaria dei presunti renziani già peppebucìardelli.