Secondo la definizione canonica risalente allo Stato ottocentesco, la burocrazia (dall’unione tra il francese bureau “ufficio” e il greco krátos “potere”) è quell’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo attraverso criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità. Per Max Weber, che la identificò nel “potere degli uffici”, la burocrazia era una forma di potere strutturata attorno a regole impersonali e astratte, procedimenti, ruoli definiti e immodificabili dall’individuo che ricopre temporaneamente una funzione. L’articolazione e l’importanza della burocrazia, dall’interpretazione dell’epoca moderna, ha continuato a crescere ed espandersi anche in epoca repubblicana, di pari passo con il potere e il peso politico dei burocrati: un potere formalmente limitato e subordinato a quello politico ma estremamente frammentato, praticamente vitalizio e continuamente espanso nelle sue prerogative da un’ininterrotta proliferazione di leggi, regolamenti e circolari interpretative.
Lo strumento burocratico, di fatto, venne ideato come uno strumento di progresso, capace di garantire, disponendo il potere in mano alla legge, una positiva terzietà statale, in contrapposizione a quelle forme organizzative basate sull’arbitrio e sull’esercizio individuale e dispotico di un potere personale. Già nel secolo precedente, però, il sistema burocratico mostrò le sue carenze fisiologiche: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, lessico al limite dell’incomprensione (più noto come burocratese), assenza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana. I fenomeni appena descritti sono strettamente collegati a quegli elementi intrinseci al modello burocratico, che tende a espandersi per perpetuare e aumentare il proprio potere, al contempo diluendo le responsabilità individuali. Queste incrostazioni storico-funzionali nel nostro Paese si sono aggravate e incancrenite per alcuni aspetti peculiari di una classe politica tesa alla continua ricerca del consenso elettorale.
Fino alla metà degli anni settanta, nel rispetto dei dettami di Keynes, il disavanzo di bilancio dello stato venne impiegato per creare sviluppo, che a sua volta creò occupazione, che a sua volta garantì il consenso elettorale a quei partiti che avevano favorito le iniziative finanziate con il debito pubblico. Gli ingranaggi di questo fortunato meccanismo, però, sul finire degli anni settanta saltarono e il disavanzo di bilancio non venne più destinato agli investimenti ma al pagamento degli interessi per i titoli emessi dallo stato a copertura del suo debito.
La classe politica, prevedendo questa fase di stallo, si pose il problema di come farsi votare in ogni tornata elettorale e la scelta cadde sull’attuazione del titolo quinto della Costituzione. Alla fine degli anni settanta si assistette all’avvio delle Regioni a statuto ordinario, che avrebbero dovuto essere Enti di programmazione e sviluppo delle potenzialità locali e che permisero allo stato di sgravarsi di personale e alla classe politica di assumere migliaia di persone.
In questo periodo si avvertì la necessità di individuare altri strumenti per rinvigorire il consenso: fu così che partì la riforma sanitaria, con la giusta motivazione che milioni di cittadini non avevano la copertura ospedaliera, anche se sarebbe bastato aprire un albo all’ente Inam. La sanità divenne il settore occupato militarmente dai partiti (fenomeno pienamente evidenziato negli ultimi anni) i quali riuscirono a fare in modo che buona parte del bilancio regionale fosse a disposizione della sanità.
Paradossalmente, mentre crebbe il costo regionale della sanità crebbe anche il contributo che i cittadini dovevano pagare con il ticket.
La ricerca del consenso da parte dei partiti così si spostò dalle politiche attive in favore dei cittadini all’occupazione delle funzioni dello stato, da mettere nelle mani della burocrazia quale espressione della politica.
A metà degli anni ottanta venne promulgata una legge per favorire l’occupazione giovanile e si formarono delle cooperative alle quali vennero affidati degli incarichi dagli Enti locali. Dopo alcuni anni i componenti di alcune cooperative divennero dipendenti pubblici, assunti, senza concorso, su spartizione politica e, cosa ancor più sconcertante, chi era in possesso dei titoli venne inquadrato con la stessa qualifica che aveva all’interno della cooperativa, compresa quella di dirigente.
Il vero problema italiano sta nel fatto che, ogni volta che si incrementa l’organico pubblico, è necessario giustificarlo con un aumento del carico di lavoro degli uffici e il conseguente aumento delle procedure, spesso su interpretazione dell’ufficio, sfruttando la farraginosità della legge alla quale si fa riferimento.
Fino allo scandalo di “mani pulite” il potere decisionale rimase in mano al politico di turno che ricopriva l’incarico e la burocrazia aveva il compito di verificare l’aspetto sostanziale e formale della documentazione prodotta. Il politico rimaneva affidato all’incarico per un breve periodo, cosa che rendeva facile smantellare eventuali omissioni o abusi. In questa fase, approfittando della debolezza della politica, la burocrazia si sostituì alla politica in quello che era il momento decisionale: il potere di firma del provvedimento passò dal politico, in continua rotazione tra gli incarichi, al dirigente dell’ufficio, permanente nel suo ruolo.
Fu a questo punto che prese via una strategia mirata a rendere sempre più complessa e meno chiara la macchina burocratica statale attraverso l’emissione di continue circolari e chiarimenti; la sovrapposizione delle competenze degli uffici statali sulla stessa materia; la produzione attraverso gli uffici legislativi di norme continuamente modificate, che fanno riferimento ad altre norme, delle quali abrogano o integrano piccoli particolari. Fu allora, insomma, che il sistema burocratico assunse quelle sembianze a noi oggi fin troppo familiari, trasformandosi nel complesso e pesante gioco di scatole cinese.
Il cittadino venne completamente escluso e obbligato ad andare a farsi interpretare (a pagamento, s’intende!) la norma.
Da quel momento, ogni volta che si parlò di semplificazione si verificò un aumento delle procedure. In questo modo si diede grande impulso alla corruzione dei “colletti bianchi”, che tutto provvidero a fare fuorché far approvare leggi che immettessero nel nostro codice altri istituti in grado di combattere questo sistema corruttivo-concertativo. Così, mentre la politica si accontentò delle dichiarazioni, la burocrazia si impadronì della gestione del bilancio pubblico ai vari livelli, con i casi scandalosi avvenuti nel sud del Paese per il mancato utilizzo dei fondi comunitari.
Già Weber intuì il pericolo insito nell’essenza stessa della burocrazia, tanto da avvertire in merito alla possibilità che i grandi stati nazionali moderni vedessero spossessati gli organi rappresentativi dallo strapotere burocratico. Entità così vaste necessitano, infatti, di strutture burocratiche molto articolate e invasive, tanto ramificate da diventare potenti e conservatrici. Accade dunque che il cittadino si trova talmente schiacciato da essere ridotto a un suddito formalmente titolare dei diritti civili.
A fine ottocento 3 grandi filosofi italiani, Mosca, Pareto e Michels, studiarono i comportamenti e il ruolo delle elite. Proprio loro, all’inizio del secolo scorso, evidenziarono il peso che la burocrazia avrebbe assunto: un potere spersonalizzante, monolitico, in grado di inficiare la democrazia stessa, creando privilegi inediti e bloccando l’economia. Una lezione inascoltata. Oggi, infatti, più di un secolo dopo, l’Italia è un paese schiacciato da bollette maggiorate, multe sbagliate, moduli, permessi in fotocopia, firme multiple, prepotenze varie di un vero e proprio ceto burocratico che si nasconde dietro cumuli di scartoffie, estraneo a ricorsi e controlli.
Il Governo deve mettere un limite alla burocrazia, arginando questo sistema che continua a invadere ogni angolo della nostra vita quotidiana ed economica. Sembra, però, che sia stato raggiunto il punto di non ritorno: gli impiegati dello stato, delle regioni, dei comuni, delle varie istituzioni, della sanità invalidano le leggi a colpa di circolari, fanno e disfanno a piacimento ciò che gli esecutivi promulgano. A causa di queste condotte la nostra quotidianità va depauperizzandosi a favore dell’immobilità e non risolutezza con il risultato che lavorare in questo Paese diviene sempre più difficile. Ci si domanda allora se esista una forza capace di sciogliere l’incrostazione burocratica, una spinta rigeneratrice. È possibile trovare la risposta solo nell’individuazione di una classe politica che non viva di finanziamenti pubblici e politica, che lavori per eliminare quelle procedure inutili e economicamente dannose, permettendo alla burocrazia di riappropriarsi del suo ruolo storico di razionalità, imparzialità e impersonalità a difesa dello stato. Confartigianato Imprese di Viterbo, nel suo impegno quotidiano al fianco delle piccole realtà imprenditoriali del territorio, si batte strenuamente affinché i limiti propri del sistema burocratico portino all’estinzione dell’artigianato italiano. Lottiamo costantemente perché si arrivi ad uno snellimento della normativa nostrana che sia a misura dei cittadini e delle imprese e che aiuti davvero l’economia italiana in questa fase tanto difficile.