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Gli scrittori e la viterbesità

Massimo Onofri

Massimo Onofri

Nell’editoriale di fine anno (“Come diceva Lucio Dalla, la città si sta preparando”, Il Messaggero, cronaca di Viterbo, martedì 31 dicembre 2013), Giorgio Renzetti ha rilevato, fra l’altro, che il successo delle liste civiche nella coalizione di centro sinistra che ha consentito la vittoria del sindaco Leonardo Michelini nel maggio dello scorso anno, “è una segnale di svolta per una città che finalmente prende coscienza della propria forza e peculiarità , ma anche segno di cambiamento altrettanto radicale nella mentalità del viterbese-medio, finalmente consapevole della propria viterbesità, come lo sono a Siena, Arezzo e Perugia (vale a dire città che hanno puntato sul loro patrimonio storico-culturale per battere le strade dello sviluppo, ndr)?”.

La lunga premessa per meditare sulla viterbesità. Rispolverando, per una opportuna lettura/rilettura, il volume Gatti e Tignosi (ed Sette Città, pp. 110) dettato dall’italianista Massimo Onofri nel 1994, che è uno “spicciolo” viaggio antropologico nelle radici di questa terra. Lo scrittore e giornalista Guido Piovene  (Vicenza, 27 luglio 1907 – Londra, 12 novembre 1974), individuò la viterbesità in un sentimento atavico, nel gusto delle festa, della scampagnata, del cibo.

Un altro scrittore, Corrado Alvaro  (San Luca, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956), che elevò a sua residenza Vallerano dove volle essere sepolto, la legava invece nella vita provinciale, arrivata alla sua limitata perfezione.

Un nome di vaglia delle patrie lettere, Curzio Malaparte (Prato, 9 giugno 1898 – Roma, 19 luglio 1957), nella gente dura e feroce e sospettosa di tutto ciò che non è del loro borgo.

Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 – Torino, 25 settembre 1954), scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e saggista italiano, nel tempo che fluisce e rifluisce, per cui il giorno precedente, dopo essere passato, ritorna a passare.

Nel suo volumetto, Onofri andò alla ricerca della viterbesità affidandosi a una serie di personaggi inventati (cioè, etimologicamente, trovati dal vero) che nella Tuscia sono nati o che con la Tuscia hanno avuto a che fare. Ventinove, per la precisione, da Agostino Addeo a Pietro Vanni, passando per Mariano Buratti, Vincenzo Cardarelli, Lina Cavalieri, Giuseppe Celestini (detto “Peppe l’oca”), Pietro Egidi, Leto Morvidi, Giovanna Pannega (la Caterinaccia), Cesare Pinzi, Bonaventura Tecchi etc. Per ciascuno di essi dettò un ritrattino, o meglio accese “un lumino funebre” prima che la ruspe cancelli la storia.

Il risultato? Ne venne fuori un sapiente dizionarietto di “viterbesi degni, indegni, comunque memorabili” che aiutarono Onofri a definire la viterbesità “nel ciclico e imprevisto alternarsi del quieto e paziente ritmo quotidiano” ovvero nella “singolare e patetica megalomania (di cui è vistoso simbolo la Macchina di Santa Rosa, ndr) che nasce dal cuore di una dimessa modestia».

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