Riceviamo e pubblichiamo dall’amico Vicenzo Ceniti
Viterbo,11.1.25
Secondo la tradizione scese di persona all’inferno per portare sulla terra un tizzone infuocato con cui avrebbe illuminato e scaldato l’umanità. Fatto sta che nella Tuscia viterbese, come in molte altre parti d’Italia, nel giorno della sua ricorrenza (16-17 gennaio) si accendono in suo onore grandi fuochi per esorcizzare una delle più fastidiose malattie, conosciuta come il “fuoco di Sant’Antonio”. Nelle rappresentazioni canoniche, l’abate (anche monaco e anacoreta). è raffigurato con saio e cappuccio, barba folta e bianca, circondato generalmente da un maiale di cui è protettore. Il suo grasso era utile alle malattie della pelle. In Germania, come ci raccontano a Castel Sant’Elia la cui parrocchiale è intestata a sant’Antonio, c’era l’usanza che ogni villaggio destinasse ogni anno un maiale all’ospedale dove svolgevano il loro servizio i monaci dell’abate..
Se siete a Londra, andatelo a trovare alla National Gallery dove se ne sta in una tavola quattrocentesca del Pisanello con la Madonna e San Giorgio. Se preferite un artista più vicino alla Tuscia viterbese, bisogna ricorrere a Mattia Preti (quello dello stendardo di San Martino al Cimino) che lo raffigura in un dipinto a Roma, oggi custodito presso la Fondazione Sorgente Group. (lungotevere Aventino).
A Bagnaia presso Viterbo, il fuoco stupisce ed assume forme gigantesche, grazie anche alla propensione del castagno ad infiammarsi rapidamente. La sera della vigilia della festa (16 gennaio) viene acceso nella piazza centrale un grande falò (il “focarone”): utile a riscaldare, illuminare, e preparare grigliate di salsicce e bruschette all’extravergine di oliva. La mattina seguente, dopo la messa, si passa alla benedizione degli animali con distribuzione di “cavallucci” (biscotti) e cioccolato caldo.
Ad Acquapendente, ai confini nord con la Toscana si fa dell’altro, anche per ricordare il suo amore per i più bisognosi. La notte del 15 gennaio nella sacrestia della chiesa di Santa Caterina, viene acceso un grande fuoco per cuocere in un antico paiolo la minestra di riso e fave che un tempo si distribuiva ai poveri. Si lessano le fave,e si aggiungono un condimento a base di cipolle, lardo tritato, olio extravergine di oliva, conserva e pomodoro e, da ultimo, il riso. Alla degustazione si mettono in fila curiosi e buongustai. La grande brace che resta è l’ideale per arrostire il baccalà. Il “Signore” della festa, responsabile del tutto (ogni anno ne viene scelto uno diverso), attraversa su una vecchia carrozza le vie del centro storico che si fa largo tra la gente. Seguono, come da copione secolare, la messa, la processione e la benedizione degli animali.
Ed eccoci a Sutri dove sant’Antonio è di casa, da sempre. Qui si rinnova nei giorni della sua ricorrenza un’antica tradizione, complici due Società, la “vecchia” e la “nuova”..Due capi famiglia del posto vengono ogni anno estratti a sorte per custodire nelle loro case durante la festa lo stendardo del Santo (uno per ciascuna delle due famiglie) che viene collocato su coloriti altarini nella camera più bella. Per una settimana, dal 17 gennaio, le porte sono spalancate a chiunque voglia far visita per un sosta di preghiera con il gradito impegno da parte dei padroni di casa di offrire agli occasionali avventori, dolcetti, vino ed altre specialità locali. Fino a qualche decennio fa le degustazioni erano più robuste a suon di salsicce, assaggi di porchetta, ciotole di fagioli locali all’olio, salumi casarecci e via mangiando. La mattina del 17 gennaio si svolge la cosiddetta “Cavalleria”. I rappresentanti delle due “Società” preceduti dai capi famiglia con lo stendardo in mano, dopo la benedizione sfilano in sella ai cavalli per le vie del centro storico tra acclamazioni ad alta voce di “ Evviva sant’Antonio!”. Il particolare non è irrilevante. Le grida vengono ripetute più volte con tanto amore e vigore da assurgere a simbolo di Sutri.
Sant’Antonio anche a Canepina, acquattata tra i castagneti dei Cimini che nel precedente mese di ottobre sono stati prodighi di “marroni” per le deliziose caldarroste. Pure qui al capofamiglia sorteggiato spetta l’onore di custodire nella propria casa una statuina del Santo con l’impegno di aprire la porta a coloro che chiedono di entrare per venerarla. Ovviamente non mancano il fuoco in piazza, la sfilata dei cavalli e la benedizione degli animali. Con l’aggiunta di una scorta di ciambelle fatte in casa che i partecipanti alla festa portano a tracolla come un trofeo sacro-dolce. Il “Signore” offre ai sodali una cena a base di prodotti locali nella Cantina di Santa Corona, uno dei sinedri deputati al rito dei “maccaroni” e “ceciliani”, specialità ineguagliabili.
Per il brindisi finale ci spostiamo a Nepi, dove la festa di
sant’Antonio abate segna l’inizio del Carnevale, con il tradizionale
“beverino”, bicchiere di vino novello e
panini imbottiti.