Il protocollo di stabilizzazione dei precari nella sanità, firmato il 16 luglio scorso in Regione tra il presidente Nicola Zingaretti e le maggiori organizzazioni sindacali, ha generato una serie di reazioni trionfalistiche, al limite del parossismo.
Il che può essere anche comprensibile, visto che il Lazio viene da anni (secoli?) di disastri nel settore, le cui conseguenze si trascinano ancora oggi: la sanità è commissariata a causa dei debiti del passato (dovrebbe uscirne, prima o poi) e attualmente i precari sul territorio regionale sono circa tremila, duemila dei quali dirigenti medici, il resto personale di comparto (infermieri, per esempio). Perciò, al netto degli strombazzamenti mediatici, gli aspetti positivi ci sono, perché si sbloccano finalmente i concorsi, cioè si decidono di fare i concorsi per creare delle graduatorie per lavoratori per tempo determinato e indeterminato. Ma parlare di stabilizzazione dei precari è un’affermazione esagerata.
Perché? Intanto perché il decreto della presidenza del Consiglio del ministri (abbozzato dal Governo Letta e poi emanato anche da Renzi nel marzo scorso) prevede sì la deroga del 50 per cento del blocco del turn over, ovvero la possibilità di rimpiazzare la metà dei lavoratori andati in pensione, ma non vale per il Lazio. Dove, con il commissariamento della sanità, la soglia si abbassa drasticamente al 15 per cento (sebbene la Regione abbia chiesto ufficialmente di poter salire al 30 per cento nel secondo trimestre del 2015). Insomma: possono essere assunti soltanto 15 lavoratori su 100 andati in pensione. Di questi quindici, la metà va sì ai precari, ma l’altra metà spetta – giustamente – ai vincitori di concorso. Non solo: pare che verranno presi in considerazione soltanto i posti lasciati liberi nel 2015, e non negli anni precedenti. Numeri, insomma, piuttosto modesti rispetto al mare magnum del precariato laziale. Ancora di più in una realtà piccola ma piena di criticità come la Tuscia. Senza dimenticare che il protocollo non tiene conto dei cosiddetti “atipici”, i liberi professionali, i co.co.co. e i co.co.pro che nella nostra provincia sono la maggioranza (al contrario di altre realtà): col paradosso che un atipico che lavora nella Asl viterbese da dieci anni può essere scavalcato tranquillamente da un lavoratore a tempo determinato, lui sì che verrà stabilizzato.
“Insomma, per festeggiare l’eliminazione del precariato ci vorrebbe ben altro – dice il sindacalista Andrea Filippi – E soprattutto servirebbe una chiara volontà politica, che purtroppo manca da tempo. In realtà la Regione Lazio non ha fatto altro che applicare pedissequamente il decreto della presidenza del Consiglio, che può anche essere perfetto per le Regioni virtuose, quelle con meno precari (per esempio la vicina Umbria, ndr) ma non qui. Per il Lazio ci voleva semmai un protocollo speciale, che tenesse in considerazione le particolari condizioni”.
Domanda: ma allora perché i sindacati – che pure dovrebbero tutelare tutti i precari – lo hanno firmato? Magari perché sperano che a settembre , nel decreto, arriveranno le direttive operative risolutorie? Oppure, e qui torniamo all’inizio, in nome della filosofia del “sempre meglio di niente”? Al culo che non vide mai camìcia (o càmice?) e gli fece una gran festa.