“Dobbiamo avere il diritto di sbagliare”. La lezione di Antonio Damato, arbitro affermato, ai giovani colleghi della sezione Aia di Viterbo, si sintetizza in una rivendicazione che è è anche il legittimo richiamo a svelenire un clima spesso ostile, comunque sempre critico nei confronti di chi è chiamato (a tutti i livelli) a fare il giudice. Perché l’errore è umano, perché l’arbitro bravo (come ripetono i dirigenti dell’Associazione italiana arbitri, rappresentata dalla circostanza dal consigliere nazionale Umberto Carbonari e dal presidente della sezione viterbese Luigi Gasbarri) ) non è quello che non sbaglia mai, ma quello che sbaglia meno. Il fatto è che la pessima cultura sportiva italiana perdona tutto (o quasi) a calciatori, allenatori, presidenti (soprattutto agli addetti ai lavori della squadra per cui si tifa) e nulla ad arbitri, assistenti, addizionali. “Mi vien da ridere – spiega il direttore di gara della sezione di Barletta che nella vita fa l’avvocato – quando sento i giocatori affermare che loro durante la settimana lavorano duro. Beh, noi facciamo altrettanto, prepariamo la gara con la stessa meticolosità e con il medesimo impegno. Per cui, l’errore è ammissibile e deve essere accettato tutti”. Come si accetta un gol sbagliato o una parata difettosa. Insomma, a certi livelli (italici e internazionali) tutti si fanno un mazzo così: buono a sapersi.
Come pure vale la pena ricordare che la selezione per arrivare in alto è severa e impietosa: “Sappiate – scandisce Damato rivolgendosi ai fischietti viterbesi – che nessuno vi regalerà mai nulla e che tutti i traguardi che raggiungerete saranno solamente il frutto del vostro lavoro, del vostro sacrificio, della vostra applicazione. Quando ho cominciato io a 16 anni (oggi ne ha quasi 44, ndr), non avrei mai pensato di poter raggiungere certi traguardi. Me ne sono reso conto dopo con il passare degli anni: studiavo, mi allenavo e arbitravo. Questo era il mio lavoro. Se volete progredire, dimenticate di fare le due di notte il sabato sera quando il giorno dopo dovete arbitrare: lo so, siete giovani, ma l’arbitraggio (qualunque sia il campionato in cui dirigete) prima che una scuola di sport, è una regola di vita: un’esperienza che servirà sempre, anche fuori dal campo”.
E allora come si diventa un buon arbitro? Sacrifici, d’accordo, capacità decisionale (ci si allena pure su quella), equilibrio e fermezza, umiltà. E poi? Saper fare tesoro degli errori commessi, anche da quelli dei colleghi. “Il polo di allenamento – spiega – è una straordinaria palestra perché si conoscono le esperienze degli altri, magari di quelli che arbitrano nelle categorie superiori. A fine gara, noi siamo i primi a sapere se e dove abbiamo sbagliato, ma se abbiamo la coscienza di aver lavorato duramente e con il massimo impegno, nessuno potrà rimproverarci nulla e potremo andare a cena e a letto senza rimorsi di alcun genere”.
Il monologo di Antonio Damato è lungo e attraente, ma il momento più atteso è la visione di filmati di gare anche recenti dirette da lui stesso. C’è la possibilità di analizzare la collaborazione tra arbitro centrale e addizionale in occasione del rigore concesso alla Fiorentina nella partita di San Siro contro l’Inter (fallo di Handanovic su Kalinic). “Io ero lontano dall’azione – commenta – ma mi sono fidato ciecamente di Banti (anche lui internazionale) che come arbitro di porta era a pochissimi metri dall’azione incriminata. ‘Rigore, rigore’ mi ha gridato nell’auricolare. E io ho fischiato il penalty e poi ho ammonito il portiere”. Le decisioni sono corrette sia sul piano tecnico che su quello disciplinare. La “sestina” si scambia continuamente informazioni (quando lo sviluppo del gioco lo permette): rigore, niente, simulazione, fallo dell’attaccante. E c’è anche una quinta possibilità, la più temuta: “Non ho visto”. E in questi casi che succede? “L’arbitro ha pochissimo tempo per decidere, 2-3 secondi al massimo. E qui ti fidi della percezione che hai avuto. Certe volte va bene, altre no”. In Italia dove tutti pensano di conoscere il regolamento (tifosi, atleti, giornalisti: sì, ci sono giustamente anche loro) e dove l’attenzione mediatica è sempre elevatissima, si scatenano autentici processi per un rigore dato o non dato. “Ricordo la mia prima partita nella fase a gironi dell’Europa League tra Fulham e Twenthe – racconta Damato -. Fischiai un fallo a favore della squadra di casa e il pubblico disapprovò la mia decisione. In Inghilterra funziona così, da noi no”.
Ma ci sono anche i casi in cui Damato sbaglia. La partita è Torino – Roma di qualche settimana fa. Manca pochissimo alla fine, i granata buttano palla avanti per recuperare lo 0-1. Rudiger è in netto vantaggio su Belotti, potrebbe buttare il pallone in curva o in angolo: invece, tergiversa, si fa superare in velocità e Manolas in recupero commette fallo sull’attaccante del Toro. “Io – confessa – commetto un grave errore. Pensando che l’azione sia finita, mi fermo e quindi al momento dell’impatto sono lontano. Per l’addizionale è rigore e perciò fischio. Il problema non è se quel fallo fosse o meno meritevole della concessione del penalty (è una situazione al limite e nemmeno mille moviole hanno chiarito del tutto la dinamica), ma la mia valutazione errata. Non commettete mai queste leggerezze: si va in campo e si resta concentrati per 100 minuti. Vi potete rilassare solo quando fate la doccia”. Con una notazione finale: “Tutti possono giocare al calcio, più o meno bene, ma fare l’arbitro non è per tutti: chi non è capace, va a casa molto presto”. Amen.