“Le storie raccolte in questo libro, narrate in massima parte con le parole dei protagonisti, parlano di contadini o artigiani di cui non sappiamo nulla, se non quelli che loro stessi ci dicono. Emergono in tal modo elementi culturali delle classi subalterne del Settecento, necessariamente legati a consuetudine quotidiane e ad azioni minime”. Cosi il risvolto di copertina del volume di Luca Pesante “Amorosi Colpevoli. Sesso, scandali e violenze in una comunità rurale del Settecento” (Palombi editore, pp.159, euro 14,00), che ha trascritto una rilevante mole di documenti, conservati nell’Archivio vescovile di Bagnoregio, relativi agli “Atti criminali” del Tribunale vescovile dal 1701 al 1797.
Come si intuisce dal sottotitolo, l’intera documentazione è riferita a reati di natura sessuale (stupro, incesto, sodomia, ma anche adulterio) che, una volta partito l’iter processuale, vengono raccontati con assoluto realismo dalle vittime.
Citandolo ad esempio, leggiamo quanto spiegò una pastorella di 8 anni, Chiara, nel corso dell’interrogatorio: “(…), mentre giocavo con la fune verso le ore 20 sopraggiunse il detto Domenico Leonardi che mi prese violentemente e per forza per un braccio e mi condusse dentro un grotta vicina, mi buttò in terra e mi pose il sinale sopra la testa, e sciogliendosi i calzoni e cacciando fuori quel coso col quale pisciano gl’omini, con molta forza e violenza sentii che me lo introdusse dentro la pipa…”.
Non mancano casi di omosessualità, in special modo in ambito religioso, “ma è anche frequente – spiega Pesante – trovare sacerdoti coinvolti in reati ben più gravi: nel 20 per cento circa dei processi analizzati i protagonisti sono canonici, diaconi e preti sorpresi a peccare con donne, ancora zitelle o sposate, nell’ambito di relazioni tutt’altro che occasionali e dalla chiara fisionomia dell’adulterio e del concubinato”.
In diverse cause, le donne sono vittime due volte. “Non tutte – annota l’autore – avevano la forza di affrontare un processo regolare né potevano avvalersi di un sostegno, esponendo quindi in pubblico la propria ‘disonestà’ e in molti casi la povertà le spingeva verso la solitudine e la rassegnazione”.