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Non si può morire a 32 anni in ospedale

Riflessioni e considerazioni di varia umanità sorseggiando il caffè della domenica

trentarighe disegnoValentina aveva 32 anni, era alla diciannovesima settimana di gestazione e in grembo portava due gemellini. E’ spirata domenica scorsa dopo 17 giorni di ricovero nell’ospedale Cannizzaro di Catania; nelle ore precedenti erano morti anche i due feti. Al di là delle polemiche e del clamore intorno ad una vicenda sulla quale sta doverosamente indagando la magistratura etnea, vien da chiedersi immediatamente in che razza di mondo viviamo se è ancora possibile, nell’anno 2016, che si possa morire in ospedale dopo oltre due settimane di permanenza nello stesso.

La famiglia sostiene che quanto è avvenuto deriva dal fatto che un medico si è rifiutato di praticare l’aborto terapeutico in quanto obiettore di coscienza; la direzione sanitaria dell’ospedale replica che questa non è la verità poiché l’obiezione da parte dei sanitari può essere sollevata solo quando si tratta di interruzione volontaria della gravidanza. E non era quello il caso perché per il primo gemellino si è trattato di un aborto spontaneo, mentre il secondo è stato indotto dal medico (prova questa che non è stato opposto alcun tipo di obiezione di coscienza).

E allora che cosa è successo? La risposta è decisamente prematura, tanto più che non è stata ancora effettuata l’autopsia sul corpo della povera donna, ma almeno dalle prime dichiarazioni del ministro della Salute Beatrice Lorenzin (che ha inviato sul posto una pattuglia di ispettori) sembra trattarsi semplicemente di un caso di malasanità. Come se fosse ammissibile una cosa del genere…  Valentina era ricoverata da giorni, era in preda a febbre molto alta e a dolori fortissimi: si può ipotizzare che abbia contratto un’infezione. Ma era in ospedale e non essere riusciti a diagnosticare che cosa provocava quei fenomeni e quindi a salvare una vita umana, è fatto di gravità assoluta.

Valentina con il marito Francesco

Valentina con il marito Francesco

Si va in ospedale per farsi curare e per ricevere assistenza totale, non per morire. A 32 anni e con due gemellini in grembo. Non c’è bisogno di una laurea in medicina per comprendere che qualcosa (anzi, moltissime cose) non ha funzionato nella catena dei controlli e nelle necessarie pratiche per combattere la febbre e i dolori. Che ci fosse un’infezione in atto lo avrebbe capito anche uno studente del terzo anno. Possibile che nessuno in una struttura presumibilmente grande e attrezzata si sia posto il problema? In un ambiente in cui circolano decine di medici e infermieri, non ci poteva non essere uno solo che si si fosse posto una domanda banale: perché? Esistono protocolli nazionali e non solo che predispongono una serie di atti in casi del genere. Come è avvenuto recentemente a Viterbo con il caso di quella bimba di due anni, figlia di una migrante, alla quale è stata diagnosticata per tempo una meningite: è bastato un tampone laringo-faringeo per individuare subito il male e agire di conseguenza. Adesso quella bimba sta bene, è stata dimessa ed è potuta tornare nella struttura che la ospita. Basta applicare le regole, che ci sono e che tutti dovrebbero conoscere, per evitare guai seri.

A Catania è chiaro che questo non è avvenuto. Forse non sarebbe stato possibile salvare i gemellini, ma Valentina probabilmente ce l’avrebbe fatta e con tutta la vita davanti avrebbe potuto avere altri figli. Invece così non è stato e adesso qualcuno dovrà pagare perché non può essere stata colpa soltanto del destino cinico e baro.

Buona domenica (si fa molto per dire).

 

 

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