02052024Headline:

“Abbasso la squola”

Lettera 22, a cura di Giuseppina Palozzi

Giuseppina Palozzi

Giuseppina Palozzi

a cura di Giuseppina Palozzi, psicologa e psicoterapeuta

Prima ancora dell’hashtag “#”, c’era un simbolo anni fa che, come il pollicione, su o giù, indicava il livello di gradimento: la doppia vù “W”.

Un “viva!” da leggere con lo stesso impeto di Pozzetto che dal tettino di una vecchia 500 sventolava bandiera bianconera. Esattamente lo stesso impeto: quello di uno che non ha la più pallida idea del perché lo faccia ma che in quel momento pensa di trarne vantaggio.

Sulle lavagne di ogni scuola rispettabile, almeno una volta, un bambino in punta di piedi e con la manica sporca di polvere bianca ha scritto “doppiavù-rovesciata la scuola”.

Abbasso la scuola. Noiosa, faticosa e che mi chiede i compiti.

Una scuola formata, riformata e trasformata negli anni da ambiente privilegiato di formazione e educazione, anche civica, a campo di guerra.

Guerra al bullismo, guerra agli abusi, guerra agli insegnanti, guerra allo stato.

L’uso figurato di alto-basso richiama la rappresentazione grafica che da sempre associata al potere: la piramide.

Una costruzione complessa che nessuno riesce ancora a spiegarsi, ma che ha fornito all’occhio un modello di classificazione per fasce in termini valoriali veri e propri: chi sta abbasso non vale nulla.

Ma vi siete mai infortunati un piede?

La base di qualcosa è ciò su cui quel qualcosa poggia e può far affidamento.

È ciò su cui quel qualcosa è stato costruito.

E noi, cittadini, che stato vogliamo costruire? Di quale Italia ci lamentiamo?

Perché un genitore che picchia un insegnante non difende il figlio, ma lo condanna ad uno stato in cui non c’è rispetto per l’Altro e per il ruolo che in quel momento rappresenta.

Perché si può essere estremisti in tanti modi, tutti caratterizzati dalla non tolleranza dell’Altro e dal rifiuto ad un dialogo che sia scambio.

E allora non tolleriamo gli stipendi dei politici, dei presentatori, dei calciatori, che però citiamo e compiangiamo quando restano vittime della loro vulnerabile umanità; quando forse ci accorgiamo che sono tanto altro, tanto di più del mezzo-busto Panini. Che sono persone.

Spesso mi è capitato di confrontarmi sulla “barca de’ soldi” che prende questa o quella categoria come violazione del settimo comandamento. Molto spesso con chi non mi faceva lo scontrino.

Le Istituzioni, statali o metaforiche, vengono costantemente contestate e denigrate, spesso sulla scia di luoghi comuni dovuti a qualcuno che sicuramente in qualche occasione ha sbagliato.

Ma è giusto generalizzare ad un’intera fascia la caratteristica di qualcuno che magari è solo un uomo?

Diventa pensiero assolutizzante e rischioso, soprattutto quando trasmesso ai nostri figli.

È possibile aprirsi alla possibilità di vedere le cose da un diverso punto di vista? O vogliamo ridurci a categorie tagliate con l’accetta e qualificate in base agli zeri sullo stipendio?

Lo studio non è un vezzo, non è un privilegio che favorisce gli accessi. Lo studio è formazione, impegno e dedizione, sacrificio, energie spese nel cercare nuove competenze e conoscenze da mettere in campo in termini di sviluppo. E no, non è che chi studia vale di più di chi lavora.

Sono scelte e, come tali, prevedono vantaggi e svantaggi. Ma certamente ci troviamo di fronte a due percorsi diversi e che dunque offrono soluzioni e applicazioni diverse.

Non ho mai capito perché gli esempi che risultano più efficaci sono sempre quelli a sfondo chirurgico, ma credo abbia a che fare con la sola cosa che ci attiva seriamente: la vita. Ci provo.

Allora vi chiedo, credete veramente che quel bamboccione rimasto a carico della famiglia per studiare non se li sia guadagnati gli stipendi che vi richiede per operarvi? O vi sarebbe andato bene anche che avesse studiato un po’ meno anatomia così da chiedere meno?

È questione di fiducia. Roba complessa che, voi mi direte, una volta tradita diventa difficile offrire.

Ma quanto è difficile (af)fidarsi alle Istituzioni alla base della nostra civiltà quando vengono esse stesse denigrate, proprio da noi?

Aggressioni nelle scuole, scandali del Vaticano, poliziotti criminali, politici corrotti, sanità scadente ci rendono davvero impotenti o possiamo vederli con un’altra prospettiva?

Esistono insegnanti in Ghana che si inventano di disegnare schermate di pc sulla lavagna non avendo computer.

Esistono preti in grado di accogliere e aiutare il prossimo.

Esistono poliziotti e politici che amano e tutelano il proprio paese, nella sua più complessa eterogeneità.

Esistono organizzazioni umanitarie che non chiedono sesso di scambio.

Esistono sanitari che non hanno paura del contagio, metaforicamente parlando.

E allora voglio dissociarmi dall’impressione disfattista che può passare, facendo un pensiero sulla possibilità di farci noi stessi contaminare, nella vita quotidiana.

Aprendo al dialogo. Riconoscendo le istituzioni, di cui noi stessi siamo responsabili, come risorse.

Affinché non si riduca il paese ad una puntata di Maria De Filippi.

Altrimenti rischiamo di chiederle noi quelle brioches che voleva lanciare Maria Antonietta al popolo francese in rivolta per carenza di pane.

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