Il calcio, nella sua globalità, investe poco o niente nei vivai. Il tema è stato sollevato qualche giorno fa a Canepina dal delegato Coni di Viterbo Alessandro Pica, nel corso della cerimonia di premiazione delle società che hanno vinto il campionato nella passata stagione nelle categorie del settore giovanile e scolastico. Argomento importante e interessante, location forse inopportuna. Comunque, la provocazione di Pica ha radici e motivazioni reali, ma il problema riguarda soprattutto (anzi esclusivamente) i club professionistici che preferiscono andare a pescare giovani nei campionati stranieri piuttosto che programmare una seria attività a livello giovanile. Le motivazioni? Essenzialmente i costi: meglio spendere pochi euri per un ragazzotto africano che investirne molti di più per la crescita e la maturazione di un italiano. Questa è la drammatica verità: Basta vedere quanti stranieri giocano nel campionato Primavera (che è poi la principale vetrina del calcio giovanile italiano): tanti, troppi. Un fenomeno che si ripercuote inevitabilmente sul campionato: l’Italia è al quint’ultimo posto in Europa per numero di giocatori cresciuti nel vivaio e arrivati alla prima squadra. Basta dare un’occhiata alle formazioni che oggi scendono in campo in serie A e B per rendersi conto che la situazione è grave. Tutto questo è inesorabilmente vero, ma non tocca (se non in modo assai marginale) il mondo dei dilettanti. Dove ci sono problemi, ma di altra natura. Innanzitutto culturale, ma poi evidentemente anche economica.
Innanzitutto, va detto con chiarezza che bisognerebbe impedire fisicamente la presenza dei genitori alle gare dei propri figli. Sin dalle categorie più basse. In un Paese dove tutti credono di poter allenare la Nazionale, non ci si deve meravigliare che alle partite giovanili il babbo e anche la mamma pretendano di sostituirsi al tecnico con consigli e indicazioni non richiesti e spesso in contrasto con le direttive dell’allenatore. Tutto questo è culturalmente e profondamente sbagliato: mina l’autorevolezza di chi sta in panchina, confonde le idee di chi sta in campo, crea confusione e sovrapposizione di ruoli. Allora servirebbe una soluzione radicale: meglio che papà e mammà non assistano ai match dei proprio pargoletti. Il secondo aspetto è tipo finanziario: la crisi perdurante ha ridotto ancora di più gli spazi di manovra. Di soldi ce ne sono sempre meno in giro. Ci si affida alla munifica presenza del presidente o di qualche sempre più raro sponsor. E siccome questa non è una situazione a lungo sostenibile, si finisce col dover chiudere baracca e burattini. Con l’aggravante che il danaro che si intasca con i proventi delle scuole calcio spesso viene utilizzato per sostenere l’attività delle prima squadra. E anche questo è profondamente sbagliato e ingiusto: andrebbe reinvestito in larga parte nel settore giovanile. Quando poi spunta un talento, incomincia l’asta per piazzarlo al miglior offerente, con la presenza (sempre più consistente) di mediatori e/o procuratori (meglio sarebbe dire faccendieri) che hanno solo l’obiettivo di guadagnarci qualcosa.
Come si risolve la questione? Bacchette magiche non ce ne sono. Serve un lavoro in profondità che deve partire dalla base. Proprio da quel mondo del dilettantismo puro che costituisce l’ossatura del sistema calcio, senza del quale anche serie A e Champions non potrebbero a lungo resistere. Il calcio è un gioco, soprattutto per i giovani. Chi se lo dimentica, ne decreta di fatto la morte.