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Bonucci tricolore: festa a Pianoscarano

Leonardo Bonucci

Leonardo Bonucci

Sostiene Fabio Capello che a vincere non ci si abitua mai. Magari è vero, ma per quanto riguarda il festeggiare è un altro discorso. Così anche ieri i tifosi viterbesi della Juventus sono scesi a Pianoscarano, in via dei Giardini, a salutare lo scudetto bianconero sotto casa di Leonardo Bonucci. Ecco, questa sta diventando un’abitudine: accadde già lo scorso anno, in occasione del tricolore numero 28, il primo dopo Calciopoli, il primo dopo la rifondazione. E il primo nella carriera di Leo, che pure aveva assaggiato il gusto da ragazzino, all’Inter con Mancini (ma non giocò mai).

Questi due scudetti sono scudetti vinti da protagonista assoluto. Da punto di riferimento. Da difensore affidabile, concentrato in marcatura e primo regista nell’impostare l’azione, prima che la palla arrivi al meraviglioso Pirlo, che poi ne farà buon uso. Bonucci, il viterbese Bonucci, ormai è un giocatore maturo. E’ un uomo maturo, anche se la carta d’identità, alla voce “anni”, dice solo 26, festeggiati tra l’altro proprio a Viterbo, mercoledì scorso, con una passeggiata in centro.

Ecco, Viterbo. Leonardo è partito da qui. Da Pianoscarano, che non è un quartiere, ma un rione, come quelli di una volta. Dove tutti si conosco e si aiutano. Dove si scende in strada a parlare, e a giocare a pallone. Dove al bar tengono esposte le maglie del vicino di casa diventato ricco e famoso. Qui neanche l’invidia arriva: si ferma appena fuori la porta: l’invidia è dei viterbesi, mica dei piascaranesi, ti dicono con orgoglio. E infatti, quando Bonucci andò con la Nazionale ai Mondiali del Sudafrica, qui in piazza fecero una grande festa, col maxischermo e i ciambelloni fatti dalle mamme. Bonucci non giocò un minuto, ma chi se ne frega.

Dalle partitelle col fratellone Riccardo (fortissimo pure lui, ma sfortunato) al Pianoscarano, la società del borgo, e poi alla Viterbese. Da attaccante Leo diventò centrocampista, e poi ancora più dietro, in difesa: merito di allenatori svegli come Massimo Baggiani, o come Carletto Perrone, che intorno a Bonucci ragazzino costruì una Berretti gialloblù fortissima. Allora arrivò l’Inter, con l’occhio sveglio degli osservatori che battono tutti i campi di provincia. Preso al volo, si va a MIlano, a giocare a calcio e a studiare – perché c’è pure un diploma da prendere – a cinquecento chilometri da casa. Bonucci è uno su quei mille, uno che ce la fa: vince lo scudetto dei piccoli con la Primavera, esordisce in prima squadra, in Coppa Italia e in Serie A. Mancini, tra una pettinata e l’altra, lo coltiva e lo fa sbocciare. Poi arriva Mourihno e Leo viene mandato a farsi le ossa in giro per l’Italia: Treviso, dove segna pure un paio di gol, e Pisa, dove retrocede in C. L’Inter lo scarica, il Bari ci scommette su: è Ventura che lo vuole fortemente, e che intorno a lui costruisce la difesa che si salverà in serie A. Leo è esploso definitivamente: la Juve ne scuce 15, di milioni, per portarlo a Torino. E’ una pietra pesante nella ricostruzione bianconera: lui regge benissimo l’urto, parla poco, osserva molto, migliora di giorno in giorno. Il resto è storia: la Nazionale, il primo scudetto, la Champions league, oggi il bis tricolore e le bottiglie stappate nello spogliatoio. In mezzo, Leonardo ha trovato il tempo per sposarsi con la storica fidanzata Martina, e di sfornare un erede di nome Lorenzo, nato a luglio, in mezzo agli Europei e che ieri era allo stadio a vedere papà che si prendeva il tricolore. Quando torna a Viterbo Bonucci sta in famiglia, con gli amici di sempre, qualche passaggio in discoteca, un aperitivo. Ma non dice mai di no ad una premiazione, a una visita alle scuole calcio o al reparto di pediatria di Belcolle. Poi sale di nuovo a Torino, si allena, gioca e vince. Tanto. Vuoi vedere che, alla faccia di Fabio Capello, è diventata un’abitudine?

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