23042024Headline:

Povero Urcionio, fiume cancellato

La valle di Faul, dove scorreva l'Urcionio

La valle di Faul, dove scorreva l’Urcionio

La bambina mi fissava curiosa mentre attonito contemplavo il panorama dal cortile alto del palazzo dei Priori. “Com’è strano visitare Viterbo con gli occhi di chi non la conosce” dichiarò seriamente quasi rivolta a se stessa, mentre la madre, una giovane e bella signora di nome Barbara, mi indicava la sottostante piazza dei Caduti, dicendo: “Ecco, lì sotto scorre l’Urcionio!”.
Aguzzai la vista e non scorgendo altro che la spianata di un ampio parcheggio, con alla sinistra i ruderi di una chiesa e a destra un monumento moderno, domandai: “dove…. dove?”. E lei “lì.. proprio lì sotto”. Compresi allora che doveva trattarsi di un corso d’acqua interrato, e parafrasando il nome dissi: “Ah, è stato riempito con gli orci (nome desueto per vasi)”. “Può darsi..” commentò Barbara, per nulla confusa dalla mia battuta. Ed io insistetti: “Eh sì, evidentemente il nome Urcionio deriva dagli orci che vi sono stati riempiti e svuotati nel passato”.
Poi ce ne restammo in silenzio mentre cercavo d’immaginare il torrente che scorreva dabbasso. E lo vidi, con gli occhi della fantasia. Quella piana in fondo sembrava fatta apposta affinché la percorresse un fiume. Notai allora come l’orografia del territorio ricordasse un ideale alveo, una valle dolce e rigogliosa – un tempo – ora un posteggio.
Sulla costa, risalendo con lo sguardo dall’altro lato, diverse nuove costruzioni, nuove si fa per dire ovviamente, forse risalenti al Ventennio, e l’Urcionio scomparve dalla mia immaginazione e ridiventò un fiumiciattolo “intubato”. Triste destino per il rio che vide sorgere l’antica Viterbo. E infatti è risaputo che gli Etruschi costruissero le loro città presso i corsi d’acqua, utili per l’approvvigionamento idrico, per le coltivazioni, per la pesca, per i bagni estivi. Poi rividi con gli occhi della mente uomini e donne intenti a risciacquarsi i panni, a riempirvi gli orci, oppure a rinfrescare quelli usati per le deiezioni notturne. Infine vidi la Viterbo ottocentesca e quella degli inizi del secolo scorso, con le prime condotte fognarie scaricanti nel fiume, finché esso stesso divenuto una cloaca a cielo aperto fu occluso, alla vista e all’olfatto. “Povero Urcionio! Cancellato, ucciso, dopo aver dato la vita a Viterbo”.
Così riflettevo fissando distrattamente le auto in sosta, e quelle che entravano ed uscivano dal “boulevard” Marconi, la continuazione dell’alveo interrato. Mi accorsi allora degli occhi grigi di Barbara puntati su di me, sentii la sua malinconia, ricordai quella volta in cui venne a trovarmi a Calcata e passeggiando sulle rive del Treja le raccontai leggende e storie di antichi riti, di lavacri sacri, del fatto che in tempi remotissimi Calcata fosse stata un’isola del proto-Tevere, del fossato che in epoca medioevale difendeva la “bocchetta” d’ingresso al paese, di come poi fosse stato riempito di come verso fine ottocento avessero innalzato il terrapieno che costituisce l’attuale piazza Roma, di come questa stessa piazza sia oggi ignominiosamente e volgarmente utilizzata come parcheggio per le auto delle orde turistiche. Insomma, di come Calcata e Viterbo avessero tradito le proprie origini.

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