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Forse domenica sera è nato il vero Pd

Matteo Renzi

Matteo Renzi

Forse (e sottolineo forse) domenica sera è nato il vero Pd. Quel Pd che nel 2007 Walter Veltroni aveva immaginato come un partito riformista nel quale sarebbero dovute scomparire le provenienze (ex Ds, ex Margherita), che riuscì a prendere il 34% dei voti alle politiche del 2008 (in un’elezione persa in partenza dopo lo sfacelo della coalizione che sosteneva il secondo governo Prodi),  e che invece abortì per volontà soprattutto di quelle correnti (formate dalla vecchia classe dirigente) incapaci di comprendere che la politica stava cambiando e di adeguarsi al nuovo comune sentire dei cittadini.

Forse (e risottolineo forse) domenica sera la svolta c’è stata davvero. Giacché stavolta anche l’apparato del partito (quell’apparato che lo scorso anno aveva consentito, chiudendosi a riccio, la vittoria di Pierluigi Bersani) è crollato davanti alle richieste di un popolo che in questi anni ha sofferto molto, perché credeva in un progetto che la classe dirigente si è dimostrata totalmente incapace di realizzare, ritenendo di potersi riaffermare solo grazie all’appannarsi della stella di Silvio Berlusconi (cosa che è avvenuta solo parzialmente), e non proponendo un progetto alternativo che avesse un minimo di appetibilità. Favorendo, in questo modo, anche la crescita esponenziale del nuovo guru della politica italiana Beppe Grillo.

Il fatto che Renzi abbia ottenuto una massa enorme di consensi in tutt’Italia, ma soprattutto nelle cosiddette regioni rosse, eredi di quel centralismo democratico che per decenni aveva costituito la forza del vecchio Pci, la dice lunga su un popolo che aveva voglia di riscossa, che sognava un obiettivo da raggiungere, che voleva tornare ad essere protagonista, ma che era impedito a farlo perché – ricordando una frase famosa di morettiana memoria – “con questa classe dirigente noi non vinceremo mai”.

Onore a Gianni Cuperlo, persona seria, che ci ha messo la faccia. Ma che avrebbe rappresentato la continuità di un fallimento perpetuatosi per decenni e che ha avuto il suo acme proprio nel 2012, con la candidatura di Bersani a premier , con tutto quel che ne è seguito.

Renzi, fino a domenica sera, ha avuto il grande merito di ridare una speranza. Di dire alla gente che il Pd – quel Pd nato al Lingotto nel 2007 – non è morto ma è vivo e lotta insieme a noi. Che è l’unico partito (perché nelle altre parrocchie c’è solo tanta cialtronaggine) in grado di cambiare radicalmente l’Italia, anche sfidando certe culture retrograde che si annidano – sia a destra che a sinistra – in certi strati sociali dove regna solo il desiderio di autoconservazione a danno dei più deboli.

Il sindaco di Firenze ha detto che con lui la sinistra non è morta, ma che cambieranno i giocatori in campo. Credo che abbia ragione. Perché un’altra sinistra – anzi un altro centrosinistra – è possibile. Un centrosinistra che proponga un programma e poi lo attui, un centrosinistra che la smetta di cincischiare e di avere cento parti in commedia sui singoli problemi, un centrosinistra che la smetta finalmente di litigare e diventi faro per un Paese che ha bisogno urgente di essere restaurato.

Qualcuno afferma che Renzi sia una specie di alter ego di Silvio Berlusconi. Sbagliato. Perché il secondo ha affermato il suo potere grazie all’autoritarsimo (essendo lui il padrone del suo partito), mentre il primo si gioca tutto sull’autorevolezza degli argomenti che propone.

Ora il Pd ha una grande responsabilità. Quella di stringersi intorno al suo nuovo segretario e di aiutarlo a realizzare il suo programma. Discutendo, certo; osservando; analizzando. Ma avendo ben chiaro in testa che dentro il partito va cambiato tutto. Se il resto della truppa sarà in grado di fare squadra col proprio leader forse stavolta l’Italia potrà cambiare. Altrimenti nessuno potrà salvarla dai demagoghi e dai populisti che rischiano di portarla dritta dritta nel baratro.

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1 Commento

  1. Giorgio Molino ha detto:

    La nuova parola d’ordine: riposizionarsi. Peppebucìardamente parlando.

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