26042024Headline:

Caro Melilli, ti scrivo…

Fabio Melilli

Fabio Melilli

Le primarie dell’8 dicembre, che hanno eletto segretario del Pd Matteo Renzi, e queste recenti del 16 febbraio, in realtà non sono primarie (che notoriamente servono per trovare un candidato a qualcosa); si è trattato di una espressione di democrazia diretta ed allargata: diretta perché ha votato tutta la base degli iscritti al partito; allargata, perché hanno votato oltre agli iscritti anche gli elettori. Quindi abbiamo utilizzato un termine non appropriato.

Ogni volta che registro un corto circuito semantico, mi viene in mente Umberto Eco con la chiusura del famoso romanzo – Il nome della rosa -: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Oppure Shakespeare in Giulietta e Romeo:” Se la rosa si chiamasse in altro nome smetterebbe forse di profumare?”. I classici aiutano a rapportarci al presente ed a sopportarlo, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno.

E’ inoppugnabile che le pratiche di democrazia diretta e deliberativa abbiano costituito l’innovazione politica più rilevante del Pd e di Renzi e che esse vadano considerate, soprattutto in vista di un nuovo governo con lui presidente del Consiglio, come fattori costituenti ed irrinunciabili dell’innovazione della pratica politica, della militanza, dell’impegno, oggi. “Bisogna farla finita con dirigenti che decidono fra loro, fanno e disfano… Il campo democratico deve ridare voce e potere alle persone nell’esercizio della loro responsabilità individuale. Questa cessione di sovranità verso il basso è il solo vero atto esplicito e concreto per superare il correntismo e le intercapedini burocratiche”.

Più chiare e lapidarie di queste parole di Goffredo Bettini non potrebbero esserci; esse sono la premessa indispensabile per l’affermazione di quel tipo di democrazia praticata e diretta di cui Renzi, spero in modo consapevole, si è fatto araldo e leader. Senza scomodare il citatissimo Machiavelli, sappiamo bene che le regole della politica sono eterne: dall’homo omini lupus, alla prosecuzione con altri mezzi della guerra (il rovescio di Von Clausevitz), al pranzo di gala di Mao, la politica è stata sempre effetto della forza (militare, diplomatica, carismatica, ideologica, religiosa, mediatica, ecc.).

Quindi oggi non possiamo che constatare nel nostro campo in formazione, che prima che gli assetti di potere si stabilizzino su nuovi equilibri, anzi come supporto di base indispensabile, abbiamo a disposizione un periodo di tempo eccezionale, perché succede sempre più raramente, in cui poter innovare alcune forme di partecipazione democratica attraverso i partiti; forse non in modo duraturo, ma sicuramente significativo.

Restituiamo la parola ai cittadini; istruiamo con abbondanza di documentazione i termini delle questioni su cui deliberare; coinvolgiamo con il sistema “ciascuno ne porti un altro” fasce di popolazione sempre più ampie; consentiamo, fuori da ogni estenuante burocratizzazione, forme nuove, singolari, eccentriche di riunione: nei bar, nei ristoranti, nei giardini pubblici; in orari nuovi, finalmente comodi; per riunioni brevi, essenziali, senza logorrea, senza sindrome dell’intervento; tutto ciò è possibile ed a portata di mano e di coraggio. Con tutta la modestia del caso penso che se al governo Renzi non si riferisce e collega un movimento di nuova pratica politica che trovi dal basso la propria giustificazione e valenza, difficilmente quel cambiamento epocale da molti auspicato ed invocato potrà verificarsi.

E’ possibile sperimentare tutto ciò a Viterbo costruendo coralmente un nuovo tipo di organizzazione del Pd? Che sia inclusiva verso il basso, orizzontale il più possibile, leggera nelle decisioni, pesante nelle tematiche? Oppure siamo condannati alle perenni divisioni in correnti ed addirittura subcorrenti, al piccolo cabotaggio ed alla costante subalternità con Roma e dintorni?

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