Una città senza campi è una città senza futuro, almeno sportivo. Chi i campi ce li avrebbe pure, ma preferisce dimenticarseli, chiuderli o lasciarli morire, che razza di città è? Vale la pena porsi la domanda in questo brevissimo viaggio tra i playground – così si chiamano i campi da basket di strada – abbandonati di Viterbo. Un cimitero di sogni, una fabbrica di rimpianti, un’ombra che s’allunga sulla cultura sportiva (e non solo sportiva) del luogo e dei suoi amministratori.
Prima tappa, La Quercia. Nel bel mezzo di Campo Graziano, il bel parco pubblico ai margini della frazione, c’è un playground a suo modo storico. E’ di cemento, ben fatto, le linee di delimitazione laterale e di tiro sono perfette. Intorno c’è il verde, i giochi per i bambini, il campo di bocce. Un ampio parcheggio. Le abitazioni sono lontane. Sarebbe il posto ideale per giocare a basket, per dare vita a quelle interminabili partite di bambini – quelle che finiscono solo quando la mamma chiama e avverte (minaccia) che la cena è pronta. Tutto perfetto, anche i tabelloni, sostenuti da solidi pali. Ma a ben guardare, ecco l’assurdità, ecco cosa manca: mancano i canestri. I ferri e le relative retìne. Senza di questi è impossibile giocare a basket, perché qui non funziona come il calcio, dove bastano due zaini buttati a terra per creare una porta da centrare o da difendere, a seconda dei ruoli. No, senza canestri non si può fare pallacanestro. E allora questi tabelloni – perfetti, ripetiamo – diventano un paradosso: braccia tese senza mani, gru verso il cielo senza niente da trasportare, alberi senza chioma di foglie.
A dire il vero, in molti hanno provato a rimettere a posto la cosa. I frequentatori abituali di Campo Graziano, quelli fissati col basket, gli aficionados delle partite infinite nelle lunghe sere d’estate, hanno scritto più volte al Comune, in epoche diverse. “Rimettete i canestri – chiedevano – magari anche senza retìne, solo coi ferri, all’americana. Ci basta anche questo per poter giocare”. Qualche tentativo, nessun risultato: oggi il campo è ancora mutilato, e dunque inutilizzabile. Niente cesti, niente sfide. Ci sono solo quattro cartelli, firmati dalla “Settima circoscrizione”, che fissano il regolamento per utilizzare l’impianto, e che ammoniscono infine: “I trasgressori saranno puniti a norma di legge”. Così dovevano essere gli avvisi a Berlino nel 1939: minacciosi e inutili, in una città dove nessuno aveva la più pallida voglia di divertirsi.
Qualche chilometro più giù, quartiere Ellera. Tra l’edilizia popolare della Capretta e quella piccolo borghese di via Carlo Alberto Dalla Chiesa, c’è un altro playground, anzi c’era. Due campi, recintati e ripuliti all’epoca e affidati alla gestione del Santa Rosa Basket. Era un gioiellino, un’isola di sport, di pace e di divertimento nel cuore di una zona spesso difficile, dove i genitori tendevano a non lasciare i propri figli da soli per strada. Lì nei campetti, invece, si poteva stare tranquilli. Oggi è tutto chiuso. L’entrata principale è sbarrata da un cancello: oltre, là dove c’era il parcheggio, ora cresce altissima l’erba. Impossibile verificare le condizioni dei due campetti: occorre fare il giro dalla Capretta per arrivare il più vicino possibile. Eccoci. Carcasse di scooter abbandonati, indecifrabili gereoglifici spray sui muri e, oltre la rete, i campi: vuoti, scoloriti, tristi. In mezzo, alcune panche e tavolini, vestigia di qualche cena estiva dei bei tempi passati. I canestri ci sarebbero ancora, ma l’impressione è che l’ultimo pallone sia rimbalzato da queste parti prima della guerra termonucleare. Eppure, basterebbero pochi interventi mirati, senza troppe spese, per rimettere tutto in sesto. La domanda è: a chi compete? Al Comune, oppure alla società che l’aveva in gestione? E semmai, a palazzo dei Priori sanno in quali condizioni è ridotto l’impianto? Qualcuno si è mai avventurato quaggiù?
Domande. E altre ancora, che vengono in mentre. Quando si dice che “mancano gli impianti sportivi”, spesso si fa solo demagogia. I campi ci sarebbero, solo che vengono lasciati alla deriva. Non c’è alcuna intenzione di farli vivere, di aprirli alla città o alle realtà serie (anche di quartiere, anche giovanili) che potrebbero gestirli in modo sano e intelligente. Qui, su questi tempi, si sono fatti le ossa tanti giocatori veri. Sì, perché non succede solo nei celebri playground americani, quelli di Donwtown Los Angeles, o di Harlem. Anche nei piccoli rettangoli viterbesi si sono formati cestisti veri, da Marco Tirelli a Federico Zena fino al talento del futuro, Andrea La Torre.
Oggi, invece, questi campi sono vuoti. Basta chiudere gli occhi e tendere l’orecchio per ascoltare ancora quei “passa”, “tira”, “fallo” che una volta certificavano la vitalità del posto, dei suoi frequentatori e forse anche dello sport viterbese in generale.
Due campi da basket abbandonati? Presto al loro posto sorgeranno delle belle (si fa per dire) palazzine, non dubitate.