Paolo Recchia e Rosario Giuliani. Parte così il Tuscia in jazz edizione pasquale. Con due nomi, anzi con due trii, che chiariscono subito il tasso qualitativo della manifestazione. Alto. Altissimo. Il primo si esibisce oggi (ore 19, ingresso libero) al Museo della ceramica. Proponendo un progettino niente male chiamato “Three for getz”. Il secondo (alle 21.30, 15 euro il biglietto) occupa il San Leonardo spiaggiandoci un prepotente Hammond. Nell’incontro (o meet, per dirla in gergo) con Aldo Bassi. Altra colonna portante del sofisticato panorama. Chiude la giornata la jam session (ovverosia chiunque voglia suonare porti il suo strumento) del Blitz. Quel caffè centrale che sovente ama ospitare note (il più delle volte intelligenti).
E questo è solo l’antipasto di una scorpacciata internazionale che tirerà fino a Pasquetta. Tra cognomi di lusso, stelle pronte ad esplodere, pilastri datati ma mai fuori moda, chicchette (leggi Servillo), e ancora dibattiti, aperitivi, chiacchierate e seminari. Già, i seminari. Quelle full immersion dedicate ai giovani. A coloro i quali gradirebbero progredire. Affinare la tecnica. Sbarbati, ok. Ma dal portafogli capiente. Ragazzi provenienti da tutto il mondo. Giunti all’ombra della Palanzana per studiare. Ma non solo. Perché dietro di loro ci sono i genitori. Gli amici. I curiosi. Gli appassionati. Quelli che “per Pasqua non so dove andare e a Viterbo fanno una cosa fica”.
E qui spunta la domanda. Il Tuscia in jazz (che molti considerano una cosa di nicchia) quanto turismo porta? Lecito chiederselo. Giacché il Comune dovrebbe sborsare sui diecimila euro per l’intero pacchetto. Un sesto o un settimo (per chiudere la pratica economica) dell’intera zuppa. Il cronista si è così fatto un giro. Doppio. Prima telefonico. Poi a piedi. Una passeggiata all’interno delle mura nel tentativo di capire come sono messi i b&b. Le case vacanza. Gli appartamenti in affitto. Le locande. E qualsiasi altra struttura si possa occupare. Il risultato è semplice. Non si becca un buco manco a pagarlo oro. “Sono pieno per fortuna – parla il primo operatore, via citofono – Ma grazie”. “È un momentaccio – altra voce – Spiacente”. “Alla buon’ora – tocca poi al meno diplomatico – co ‘sta manifestazione scordatelo”. “Mai ricevute tante richieste – ultimo parere – Va bene che è festa. Ma niente mi ha fatto mai lavorare tanto”.
Ora. O quelli di Viterbopost sono sfigati. O le loro facce sono poco raccomandabili. O forse (forse?) le cose stanno veramente come appena descritto (oltretutto le prevendite confermano la tesi). Quindi, tutto sommato si possono investire due soldi per poi vederli rientrare sotto altre gradite forme. A Viterbo non si costruiscono solo cattedrali nel deserto. Quando c’è programmazione, quando c’è qualità, quando ci si muove coi tempi giusti, anche nella provincia più cronica dell’intero Stivale si riesce a stupire. E si sta parlando di jazz. Non certo di prodotti facili da vendere. Come mai? Chiediamocelo tutti.