14102024Headline:

Pd, il nuovo rischio della “carica dei 101”

Massimo D'Alema

Massimo D’Alema

E’ da quando portavo i calzoni corti che sento dire dai politici di casa nostra che l’Italia va cambiata, che bisogna fare le riforme, che bisogna uscire da quell’immobilismo che in Europa ci ha relegato ai posti di seconda fila. Poi accade che quando arriva uno determinato a farlo, comincia il solito balletto dei distinguo, del sono d’accordo ma.., del si potrebbe fare cosà piuttosto che così. E finisce che alla fine non si fa più niente. Giacché cambiare significa andare a colpire interessi incartapecoriti dal tempo e l’Italia è il Paese delle lobbies, dove a cambiare devono essere solo gli altri.

Per questo temo che Matteo Renzi non ce la faccia. E non perché non ne abbia le capacità. E nemmeno perché i suoi avversari politici (mi riferisco i partiti d’opposizione) tentino di far saltare il tavolo. Il timore è che a mandare tutto all’aria sia proprio il Pd, quel partito che continua ad avere mille anime, duemila voci in capitolo, tremila distinguo, e che alla fine si perde in un bicchier d’acqua.

Pierluigi Bersani

Pierluigi Bersani

Lo spunto di questa riflessione mi è venuto da quanto accaduto proprio sabato scorso, con Matteo Renzi che a Torino (inaugurando l’ennesima campagna elettorale) ha ribadito le proprie idee per un’Italia diversa e con la convention della minoranza del partito riunitasi al teatro Ghione di Roma, presenti tutti coloro che hanno saputo raccogliere in questi anni solo fallimenti su fallimenti, in primis Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema.

Mi son detto: ci risiamo (i poco informati vadano a rileggersi le cronache). Col rischio che stavolta è diverso. Se Renzi fallisce non ci sarà più Berlusconi (ormai definitivamente sul viale del tramonto), bensì Beppe Grillo. Ovvero quello che vuole uscire dall’euro e che ha detto di voler appoggiare i secessionisti veneti. Che significherebbe una sola cosa: l’Italia nel caos.

Mi stupisce (ma non troppo) perciò, che una classe dirigente navigata e dotata sicuramente di fiuto e intelligenza non riesca a cogliere il profondo significato del momento che il Paese sta attraversando, ma continui a essere protagonista di quel teatrino che negli anni per la sinistra si è rivelato esiziale.

Nei giorni scorsi ho ascoltato con interesse le interviste (andate in onda entrambe su La7) a D’Alema e Bersani. Entrambi non negano l’appoggio all’attuale premier (e ci mancherebbe), ma nello stesso tempo sembrano dire: “a patto che faccia quello che vogliamo noi”.

Ecco, è questo il punto. E la punta dell’iceberg di questo comune sentire in una parte del Pd sta proprio nel disegno di legge alternativo per la riforma del Senato presentato da Vannino Chiti e da una ventina di senatori, utile solo a mettere i bastoni fra le ruote alla strada per le riforme.

La speranza è che stavolta la base si faccia sentire. Che guardi al di là di quello che vede una classe dirigente ormai datata, che non si rassegna a uscire di scena, ma che rischia di portare nel baratro il partito e, soprattutto, l’intero Paese.

D’Alema e Bersani (e tutti gli altri) accettino il ruolo (che nessuno nega loro) di padri nobili della sinistra. Ne hanno tutto il diritto di esserlo. Ma evitino di ripetere quella vergognosa “carica dei 101” che nel 2013 affossò Romano Prodi alle elezioni per la presidenza della Repubblica, con tutte le conseguenze che poi ne sono derivate.

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