30042024Headline:

Siae, stessa musica anche a Viterbo

Dopo la storia dei parrucchieri Laiso e Dinota, ecco cinque strani casi nella Tuscia

Il temibile bollino Siae

Il temibile bollino Siae

La settimana appena passata si è aperta e chiusa alla grande. Con due acquazzoni che solo a vederli veniva voglia di costruire un’arca preventiva, ed un tormentone nazionale (dopo il pietoso “petaloso”) che farà discutere ancora molto. O, quantomeno, fino al prossimo caso da sposare in modalità sciocca e collettiva.
Inutile concentrarsi sul diluvio, comunque. È la natura, baby. E tu non puoi farci nulla. Interessante invece è la storia dei signori Laiso e Dinota. Una coppia di parrucchieri ai quali la Siae ha donato un gentile verbale, poiché nel loro negozio diffondevano musica (da cellulare, e tramite casse) non avendo pagato il suddetto balzello.
In rete, a riguardo si sono sprecati centinaia commenti. Tra musicisti avvelenati e sostenitori spontanei (forse pronipoti di Paoli Gino). Viterbopost ha così deciso di provincializzare la notizia. Riportando cinque testimonianze locali che, anonimamente, fanno quanto meno riflettere.
Eccole, riassunte. Ai protagonisti sono stati preventivamente appioppati nomi noti, ma storpiati.

Non c’è due senza tre
Il signor Luciano Cimabue ha un negozio di dischi. Un’attività coraggiosa, nell’era di internet, delle pennette e della povertà suprema. Paga la Siae, logico. Poiché ogni cd che acquista ha il suo bel bollino. Non solo, quando rivende l’articolo anche l’acquirente la paga. Perché sempre quel bollino cambia proprietario. Perciò l’ente ha già incassato due volte. Come mai allora gli si chiede di versare un’ulteriore quota, per la musica che (promozionalmente) fa ascoltare in filodiffusione ai suoi potenziali clienti?

Orecchioni
Il bucolico Vasco Verdi gestisce il frantoio di famiglia. Prima che acquistasse un impianto moderno (con relativo mutuo sul groppone) suo nonno usava far girare foto della raccolta delle olive, e della loro frangitura, su uno schermo grande così. Verdi ha spento quell’apparecchio. Che tanto oggi come oggi il suo impianto olivicolo fa un casino assurdo, e nessuno riuscirebbe più ad ascoltare la musica di sottofondo. Però nel suo ufficio ci stanno sia un pc che un telefono cellulare (grazie, ci lavora). Domanda: anche lui deve pagare la Siae, in quanto proprietario di due apparecchi che potenzialmente trasmettono cose?

Il caso anomalo
Ennio Mollicone è amico intimo di Patrizio Pravo, che da quindici giorni ha cominciato a suonare l’ukulele. È sabato sera, e nel bar di Ennio non c’è un cane. Succede. Così Patrizio sfodera l’ukulele e suona (male) nove minuti di pessime cover. Lunedì arriva la telefonata della Siae: “Venite a pagare, sappiamo ciò che avete fatto”. I due, intimoriti, partono e consegnano un borderò raccapricciante. La Siae si commuove e annulla il pagamento. Quindi se si canta e si suona da cani non si paga?

A proposito di cani
Una città intera (una a caso) decide di mettere in piedi un concerto di beneficenza in favore di un canile. Tutti si danno da fare gratuitamente: 12 band, 100 volontari, un’amministrazione, fonici, tecnici, sponsor. Si raccolgono più di 7000 euro. Successone. La Siae però chiede quasi 700 euro di permessi “perché gratis o no, volontariato o meno, questi hanno comunque suonato”. Come del resto tutti hanno lavorato. Tutti, tranne la Siae.

Soluzioni, dopo Orte
Amy Vinodellacasa gestisce un locale a Terni (che ora le hanno tolto per farci uno squallido ristorante, ma questo è un altro discorso). È una musicista professionista e sensibile, perciò ogni settimana ospita gruppi emergenti provenienti da tutto il mondo. La sua è un’operazione culturale da 10 e lode. Quando consegna in Siae il borderò, puntualmente la stessa agenzia non le chiede un euro. Perché le canzoni sono tutte di proprietà di chi le ha cantate, e quindi non ha senso che una band paghi per proporre un brano che la stessa band ha scritto.

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