Pronto, parlo con la signora Macchina?
“Dipende. Se cerca una Panda ha sbagliato numero. Deve rivolgersi a Lapo”.
Dicevo: parlo con la signora Macchina di Santa Rosa?
“Così va meglio. Sì, sono io, in vetroresina e carbonio. Che cosa vuole?”
Informazioni. Sensazioni. Confidenze. Sa, stasera c’è il Trasporto, la porteranno in trionfo.
“E no. Cominciamo male. La prego di non tirare fuori questa parola”.
Quale, trionfo?
“Che fa, provoca? Io lo odio, quel termine lì. Mi fa venire la nausea come quando mangio troppi pistacchi, il 4 settembre. E’ una parola brutta, abusata: pure quest’anno l’hanno già ritirata fuori, spolverata ed è pronta per l’uso. Ho visto che qualcuno si è già portato avanti con il lavoro, e ha scritto di ‘trionfo’ anche per mia figlia prediletta, la Minimacchina del centro storico. Ma si rende conto?”
Semmai è un minitrionfo.
“Si risparmi le battute. Trionfo è una squadra di calcio che vince la Champions league. Trionfo è quando un imperatore romano tornava vittorioso dalla sua campagna di guerra, e rientrava a Roma lungo la via, appunto, Trionfale…”
Grazie per la lezioncina di storia.
“Prego. D’altronde di storia ne ho vista tanta, da quassù. Sa quanti re, ministri, presidenti e papi ho conosciuto?”
Se è per questo ha visto anche il Papi, Silvio.
“Berlusconi? Ho rimosso, mi dispiace. Ricordo solo il gran casino, i ritardi, le guardie del corpo. Una gran rottura di rosari. E sa come si dice a casa mia? Non basta mettersi una bandana in testa per essere un facchino”.
Non buttiamola in politica, per favore. A proposito: sa che quest’anno c’è un nuovo sindaco?
“Ho letto qualcosina. Ma per me i politici sono tutti uguali, da quassù. Piccoli piccoli, li riconosco solo perché sono vestiti di scuro in mezzo al mare bianco dei facchini, dei miei ragazzi”.
Non le è rimasto in mente nessuno?
“C’era uno che parlava forte, Gabbianelli si chiamava: diceva cose che ti davano la carica. Lo capivo dalle facce della gente. Era un motivatore, come si dice oggi. E poi c’era quell’altra, una donna, Renata mi pare si chiamasse: beveva attaccata alla bottiglia, beveva lo champagne all’arrivo, per festeggiare la posa. Come se la Macchina l’avesse portata lei… Sono rimasta senza parole”.
Di solito, a Santa Rosa, i politici vengono fischiati.
“Vero. E io, lo ammetto, sorrido sotto i baffi”.
Ma lei non ha i baffi.
“No comment”.
Le piace questo nuovo abito, bianco, che le hanno fatto per il quinto anno di Fiore del Cielo?
“Abito? Mise, vorrà dire. O livrea. Voglio vedere come mi sta mentre sfilo”.
Sia sincera: sa che ai viterbesi questa Fiore del cielo non è mai piaciuta?
“Qualcosa ho letto, qualcosa ho sentito, qualcosa mi hanno riferito. Hanno detto che ero una ‘cineseria’, una ‘scatola di confetti’, un lampadario da discoteca. Hanno detto che sono kitsch, psichedelica, pacchiana. E rispondo così: la cosa non mi tange. Le macchine passano, la Macchina resta”.
Che caratterino.
“Fuori posso avere sembianze diverse, più o meno belle, più o meno spaziali, più o meno classiche. Ma quello che conta è cosa sono dentro, e cosa rappresento. Daranno la proroga a Fiore del cielo per un altro anno? Non importa. Anche se mi risulta che un mio grande architetto stia lavorando su un nuovo bozzetto…”.
Lei è un mix tra religione, e tradizione.
“Più tradizione, ormai, che religione. Ma io preferisco riassumere il concetto in viterbesità, dura e pura. Come il peperino. Un concetto di cui vado orgogliosa, anche se mi rendo conto che potrebbe essere anche un limite”.
Così si spiegherebbe perché fuori da Viterbo non se la fila nessuno…
“Lei è un gran maleducato. E scorretto. Diciamo che ho una mia platea di affezionati, di fans, in crescita anno dopo anno. Certo, non posso vantare i numeri di mio cugino, il Palio di Siena, che però ha trovato pure una banca ad aiutarlo, e si è vista come è andata a finire. A me è un tipo di esperienza che non interessa, grazie”.
Ultime sensazioni.
“Fiduciosa. Tranquilla. Con quel pizzico di ansia che può solo farmi bene. I ragazzi, là sotto, sanno perfettamente cosa fare. Ai viterbesi posso promettere un grande spettacolo, lo stesso da settecento anni e rotti”.
Faccia un appello.
“Sì, ce l’ho. Me l’ero preparato qui, su un foglietto. Ecco: vi prego, viterbesi e turisti. Lasciate i vostri cellulari, e le vostre diavolerie digitali, in tasca. Tutti questi schermi accesi, i flash, mi massacrano. Mi fanno venire il mal di testa. E rovinano l’atmosfera. Una volta si spegnevano le luci e via. Adesso è impossibile”.
E quindi?
“Spegnete i display, accendete la passione”.
Grazie.
“Grazie a me”.
La macchina questa sera registrerà, immaginiamo con una certa soddisfazione, fischi e pernacchie all’indirizzo dei due osceni vivaviterbicoli Filippo Rossi da Trieste e Barelli l’ottuso. Sic transit gloria mundi.